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STORIA DEL GIUDICE CORAGGIOSO CHE SMANTELLO' PRIMA LINEA

LA MORTE DI LAUDI

di ETTORE BOFFANO

Maurizio Laudi


Storia del giudice coraggioso che smantellò Prima Linea

 


Maurizio Laudi era uno degli italiani coraggiosi che hanno sconfitto il terrorismo. Quello delle Brigate Rosse e di Prima Linea, le bande armate che insanguinavano l’Italia e soprattutto Torino, la città della Fiat, di Gianni Agnelli e del grande scontro di classe, del sindacato e del Pci che governava il Comune col “sindaco rosso”, Diego Novelli. Morti ammazzati e azzoppamenti, poliziotti, carabinieri, esponenti della Dc, dirigenti industriali e capisquadra di Mirafori, semplici cittadini: un rosario sanguinoso e feroce di agguati e attentati per portare l’attacco “allo stato imperialista delle multinazionali” e per bloccare il processo al nucleo storico delle Br di Renato Curcio e di Alberto Franceschini, mentre a Roma si svolgeva il dramma di Aldo Moro.

Il paese era piegato e impotente di fronte all’aggressione della lotta armata, poco o nulla si sapeva dei “samurai” del terrore e della loro clandestinità, le carceri dove venivano rinchiusi i pochi arrestati erano aperte ad evasioni altrettanto rapide e quasi annunciate, il generale Alberto dalla Chiesa era relegato in una posizione defilata mentre il nucleo antiterrorismo della polizia, guidato da Emilio Santillo, era stato appena smantellato.



Quando il sequestro e poi l’uccisione di Moro e della sua scorta disvelano a tutti la “geometrica potenza” raggiunta dall’eversione rossa, qualcosa si muove, qualcuno tenta di reagire. A Dalla Chiesa sono affidati i “pieni poteri”, mentre la svolta nella magistratura arriva proprio da Torino. E’ una felice intuizione di Mario Carassi, allora capo dell’ufficio istruzione, e del procuratore capo Bruno Caccia (poi ucciso dai killer mafiosi): per la prima volta nella giustizia italiana, nasce il “pool”.

Giudici istruttori e pm, tutti assieme nel lavoro, pronti a scambiarsi informazioni, idee e intuizioni, a collaborare con gli altri uffici giudiziari del paese: un’esperienza che sarà poi copiata a Palermo e Napoli nella battaglia contro Cosa Nostra e la camorra.



Ci sono, fianco a fianco, i giudici istruttori Giancarlo Caselli, Mario Griffey, Marcello Maddalena e i pm Alberto Bernardi, Piero Miletto, Francesco Gianfrotta e Antonio Rinaudo. Con loro, anche un giovane giudice istruttore entrato in magistratura nel 1974: Maurizio Laudi. Proviene da una famiglia di medici (lo era il padre e il fratello è primario di urologia all’ospedale Mauriziano di Torino), ma ha scelto giurisprudenza e i colleghi lo vogliono con loro per quelle spiccate doti di intelligenza e di capacità di analisi delle personalità degli imputati che ha già manifestato nelle prime inchieste.

Alcuni di loro (Caselli, Miletto, Bernardi, Gianfrotta e lo stesso Laudi) vengono da quella cultura di sinistra che è anch’essa al centro delle polemiche e del dramma politico e sociale che sconvolge l’Italia: le Br e Prima Linea sono la degenerazione estremista, violenta e suicida di quello che Rossana Rossanda chiamerà “l’album di famiglia”.

Quel bagaglio ideale e culturale servirà loro non per diventare delle “toghe rosse”, una polemica che l’attacco berlusconiano alla magistratura rispolverà negli Anni Novanta, ma piuttosto per capire meglio e prima di tutti qual è il fenomeno feroce che stanno affrontando e chi sono i capi e i sicari della lotta armata.

A Laudi e a Bernardi tocca il compito di affrontare la galassia di “Prima Linea”, il gruppo giovanilistico meno compartimentato e più movimentista del veterocomunismo brigatista, sorto dalla deriva violenta dei servizi d’ordine di Lotta Continua e dalle prime esperienze di “Senza Tregua” e delle “Ronde proletarie”. Ragazzi segnati da poca cultura, dall’antifascismo militante davanti alle scuole e agli atenei, dal mito della “Resistenza tradita” che hanno assimilato dai loro genitori, dal filo rosso innescato dalla “Strage di Piazza Fontana”, da un ribellismo parossistico che è contraddistinto dal culto della pratica dell’aggressione e che, nel pasticcio dell’antitesi tra “la critica delle armi e le armi della critica” hanno già scelto prima la spranga, poi le pistole e le mitragliette e la fuga verso il “gesto esemplare”.

La svolta arriva nel 1980, con l’arresto e il pentimento prima del capocolonna torinese delle Br, Patrizio Peci, e poi del piellino Roberto Sandalo, detto “Roby il pazzo” sin dai tempi di Lotta Continua. Per la lotta armata è l’inizio della fine: cadono, uno a uno, i capi e i militanti dell’eversione, le carceri speciali si riempono prima di irriducibili e poi di altri “pentiti” e infine di “dissociati”. Sono, questi ultimi, soprattutto gli esponenti di Prima linea che nel carcere torinese delle Vallette accettano di ricostruire davanti ai magistrati la storia dei loro crimini. Un ruolo decisivo in quella scelta lo avrà proprio la capacità psicologica e di confronto con gli imputati di magistrati come Caselli, Maddalena e Laudi e il giovane giudice istruttore collaborerà anche all’elaborazione sulla legge che, assicurando sconti di pena, favorisce la “dissociazione dalla lotta armata”. I suoi interrogatori sono incalzanti, condotti con durezza ma anche, quando serve, con voglia di capire e umanità. Il terrorismo è stato fermato anche se continuerà, negli anni, a manifestare i suoi ultimi e solitari colpi di coda.

In quei giorni difficilissimi, il “pool” di Torino è coinvolto anche nella primo grande contrasto istituzionale che contrappone la magistratura italiana al potere politico: le rivelazioni di Sandalo chiamano in causa il capo del governo, Francesco Cossiga, coinvolto dal “pentito” nella fuga di Marco Donat-Cattin, figlio del vicesegretario della Dc, Carlo. Il parlamento negherà l’autorizzazione a procedere, ma per la prima volta l’accusa “toghe rosse” si leva contro i giudici.

L’impegno del “pool” si manifesta anche nella società civile: i politici locali di tutti gli schieramenti (tra loro Diego Novelli, Guido Bodrato, Dino Sanlorenzo, Piero Fassino) cominciano a presentarsi nelle assemblee di fabbrica e nelle scuole per parlare del terrorismo e per stroncare qualsiasi voglia di collateralismo o anche solo di simpatia. Al loro fianco ci sono anche i magistrati. Procura e ufficio istruzione, poi, appoggiano con fermezza il “questionario” diffuso in città e che invita i torinesi a denunciare qualsiasi sospetto di infiltrazione terroristica: una scelta che divide la sinistra e che contrappone il Pci ai gruppi extraparlamentari ma anche ad alcuni intellettuali.

Poco alla volta, l’Italia e Torino tornano nella normalità e anche gli uffici giudiziari riprendono a lavorare sui fronti più tradizionali della lotta al crimine. Ma l’esperienza del “pool” resta in peidi e diventa decisiva come un metodo di lavoro ormai irrinunciabile. Funziona nell’inchiesta sullo “scandalo dei petroli”, in quella sul primo grande affaire di corruzione amministrativa innescata dal faccendiere Adriano Zampini e infine in due istruttorie affidate proprio a Laudi: l’infiltrazione della mafia nel Casinò di Saint Vincent e delle cosche di Catania e della Calabria nella criminalità torinese e nel traffico degli stupefacenti.
Per il giudice istruttore di Prima Linea, però, comincia anche un altro grande impegno: quello nell’autogoverno della magistratura italiana. Da sempre iscritto nella corrente di sinistra di “Magistratura democratica”, nel 1990 entra in profondo contrasto con i suoi amici e colleghi e si dissocia da un documento critico che mette sotto accusa l’organizzazione degli uffici giudiziari torinesi. E’ un tormento interiore che dura da tempo, che suscita clamore e che segnerà un profondo travaglio personale rompendo per anni amicizie e solidarietà che si erano consolidate nell’esperienza comune delle “vite blindate” con le scorte e con le famiglie spaventate, dei conti quotidiani con la possibiltà di essere uccisi in qualsiasi momento. Non verranno mai meno, invece, il rispetto reciproco e il riconoscimento a Laudi della sua intelligenza e delle sue capacità di magistrato. Poco dopo, sempre nel 1990, aderisce alla corrente moderata di “Magistratura indipendente”, guidata a livello nazionale da Marcello Maddalena e dal procuratore aggiunto di Torino, Francesco Marzachì. Laudi è eletto a Roma nel Csm per “Mi” ed è tra coloro che devono decidere se nominare oppure no Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale antimafia: la strage di Capaci, però, impedirà a tutti di scegliere.

Pochi mesi dopo, sarà uno dei più decisi ad appoggiare la scelta dell’amico Giancarlo Caselli (che continua ad essere uno dei leader nazionali di Magistratura democratica) di andare a Palermo a capo della procura sconvolta dagli attentati a Falcone e Borsellino. Qualche anno dopo, poi, Laudi diventerà anche segretario dell’Associazione nazionale magistrati.

Nel 1995 il ritorno a Torino: nel frattempo l’ufficio istruzione è stato abolito dal nuovo codice e l’ex giudice di Prima Linea diventa subito procuratore aggiunto e poi assumerà anche la guida della direzione distrettuale antimafia. Il suo impegno non verrà mai meno: gestisce la difficile transizione nella procura di Tortona per l’inchiesta sulla “banda dei sassi”, riprende le vecchie esperienze di terrorismo sul fronte delle emergenze dell’integralismo islamico e delle nuove Br, il suo nome accompagnato a minacce di morte torna sui muri di Torino per le istruttorie sulle bombe antagoniste in Val di Susa e i centri sociali dell’anarco-insurrezionalismo.

In procura svolge un ruolo importantssimo di coordinamento e di “memoria storica” sulla criminalità organizzata, mentre l’antico incarico al Csm gli vale più di una nomina come “difensore” di colleghi nei procedimenti discipliari: l’ultimo a fianco del gip milanese Clementina Forleo. Ieri, giorno della sua morte, doveva accompagnarla a Roma per una nuova deposizione davanti al Csm.

Nel 1994, invece, corona il suo antico sogno di sfegatato “suiveur” del calcio italiano, sempre con un’unica fede: la Juventus. La Figc lo chiama a ricoprire la carica di giudice sportivo: sarà Laudi, ogni settimana a comminare squalifiche e ammonizioni ai grandi del calcio italiano, sperimentando anche la novità tecnologica della “prova tv”. Un mestiere esercitato gratis, senza compensi e con grande autonomia dalla sua passione bianconera: un merito riconosciutogli da tutti. Smette nel 2006, con grande amarezza, nel grande rivolgimento morale che sconvolge la Fgci con “Calciopoli”, nello stesso anno del trionfo mondiale di Berlino.

Il suo nome spunta in un’intercettazione di Luciano Moggi, per una richiesta di biglietti e di un parcheggio allo stadio per una partita della Juventus. La cosa finisce anche al Csm, ma l’archiviazione sarà netta.

Una pagina dolorosa per lui, che non ne vorrà mai parlare in pubblico: la fine di un “gioco” appassionato che gli aveva regalato una lunga parentesi felice nello stress degli impegni giudiziarri e che aveva rivelato quell’aspetto cordiale e ironico del suo carattere ora ricordato soprattutto dagli avvocati difensori di Torino che lo rievocano come un “magistrato non arrogante, aperto alla discussione e al confronto”

Nell’estate del 2008 era decaduto dalla carica di procuratore aggiunto in seguito alla nuova norma che vieta la permanenza per più di otto anni negli incarichi direttivi e a gennaio era diventato procuratore della Repubblica ad Asti. Continuava ad essere uno dei magistrati più consultati dai colleghi italiani che si occupano degli ultimi sussulti del terrorismo e qualche volta tornava sui giornali per rievocare e giudicare gli “anni di piombo”. La storia della democrazia italiana e della sua difesa contro l’eversione armata resta segnata per sempre dal suo nome e dal suo impegno di uomo della giustizia.

(24 settembre 2009)

Tratto da LaRepubblica

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