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MONICELLI, LA GRANDE GUERRA E' FINITA

Allora, scomparsa la mansarda con vista sul Colosseo, i quadri, i rumori di pentole, i richiami bonari (“Mario, è pronto a tavola, lascia quel telefono”), con le abitudini di una senilità severa è tramontata anche l’illusione dell’indipendenza, tra referti, dottori dallo sguardo grave, luci al neon e dolori, Mario Monicelli è volato via a 95 anni, buttandosi dal quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma. Un salto dal quinto piano, l’ultimo schiaffo al male oscuro, il gesto che anticipa con decisione, dopo un solo giorno di ricovero, quello che la morte sta per toglierti. In un attimo. Come accadde a Lucentini e nel 1946 a suo padre Tommaso, giornalista, amico in gioventù del Duce, poi antifascista.

Un colpo, un cesso modesto come palcoscenico del proprio saluto estremo e come sintetizzò il maestro sul proprio genitore, una buona giustificazione per decidere di non esserci più: “La vita non è sempre degna di essere vissuta; se smette di essere vera e dignitosa non ne vale la pena”. Mario Monicelli è stato uno dei nostri registi più intelligenti. Virtuoso di una messa in scena che non dimenticasse mai l’estrazione popolare di chi allo spettacolo assisteva: “Il cinema che non passa la prova del borgataro non ha futuro”. Monicelli iniziò giovanissimo, trasvolando nell’Africa italiana per farsi le ossa, incontrando la censura clericale, per “Totò e Carolina” e “Guardie e ladri”, (Mario adorava De Curtis) e fotografando l’Italia nella commedia di costume che segnò il crepuscolo degli anni ’50.

I soliti ignoti, con Vittorio Gassman, Mastroianni e indimenticabili caratteristi come Capannello (Carlo Pisacane) : “Mo io sai che faccio? Mi faccio una bella amante: le dò venticinquemila lire al mese, magari trenta, guarda… ma con il vitto a carico suo…”, valse al film una candidatura all’Oscar. Erano i grandi anni delle sceneggiature nate in Via della Croce, da Otello, dove Age Scarpelli e una banda di intellettuali senza spocchia (Monicelli aveva imparato l’arte di convincere i collaboratori stando attento a non imporsi, sui set sahariani, al principio carriera, sotto le grinfie di Augusto Genina), disegnavano la miglior fotografia in tempo reale della nazione.

Quella rivolta invocata lo scorso 25 marzo, in un palasport bolognese che lo ascoltava ammirato nella cornice di Rai per una notte: “In questo Paese ci vuole la rivoluzione”, era stata la lezione di Mario, sia che disegnasse coraggio e viltà degli italiani affrontando un tabù fino ad allora inesplorato ne “La grande guerra”: Chi va là? Ma che fai aho, prima spari e poi dici chi va là? È sempre mejo ‘n amico morto che ‘n nemico vivo! Chi siete? Semo l’anima de li mortacci tua!” “E allora passate!” o che rievocasse il socialismo torinese di fine ottocento ne “I compagni”, (conosceva bene generosità e miserie della sinistra). Seppe far ridere come in Amici miei, riflettere sorridendo restituendo i vagheggiamenti golpisti in “Vogliamo i colonnelli” e lasciare senza parole decrivendo la vendetta di un uomo normale, ne “Il borghese piccolo piccolo”. Poi, iniziò a lavorare di meno, con più difficoltà, legando al disgusto per ciò che osservava viaggi e miraggi della senescenza. Così lo potevi trovare in piazza a Genova nei giorni del G8, o ad ammonire sui mali del capitalismo. Sempre freddamente: “Il cuore non è il cervello. Per raccontare il contesto serve obbiettività. L´occhio impassibile sul presente, se si vuole illuminare un angolo buio, è sempre necessario. Le smancerie, nell´ambito di qualsiasi arte vanno bandite come la peste”.

Sugli italiani e sul loro carattere, avrebbe potuto scrivere un’enciclopedia. “Ha un carattere doppio, bifronte, inquinato dagli espedienti e dalle verità nascoste. Quando ha il coltello dalla parte del manico, poi è spietato. Ma mai, neanche se costretto, è generoso. È più forte di lui, non è abituato”. Negli ultimi anni, quest’uomo che sceglieva sempre ogni parola con accuratezza, che si spazientiva durante le interviste: “Non sono un filosofo, quanto dobbiamo parlare ancora?”, era riuscito nell’impresa di mantenersi lucido, girare un film a 90 anni: “Le rose nel deserto” e non trovare, pur cercandoli i fiori necessari a sopravvivere nel suo giardino. Il suo giudizio era secco, sfrontato, indifferente alla valutazione esterna. Parlava Mario e non temeva il contraddittorio: “Ci ha fregato il benessere. La generazione che l’ha toccato per prima si è illusa che fosse eterno, inalienabile. Invece era stato conquistato dai padri con sofferenza e sacrificio. Così l’ha dissipato senza trovare la formula per rinnovare il miracolo e gli eredi di quel gruppo umano, hanno deluso le aspettative ad ogni livello. Gente senza carattere, priva di ambizioni, sommamente pretenziosa e basta”. Un’istantanea contemporanea. Di Monicelli sarà difficile dimenticare, nome, arte, spirito, sogno. Non è mai stato indulgente. Lui giudicava. Cattivo, giusto, unico.

da Il Fatto Quotidiano del 30/11/2010

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