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CORAGGIO PER VOCI SOLE

di Nicola Tranfaglia | 22 febbraio 2011

La longevità dei fenomeni mafiosi poggia su due pilastri: lo stretto rapporto con il potere e la solitudine di chi ha provato ad opporsi.

Ci sono due delitti di mafia e camorra avvenuti, l’uno nel 1988, l’altro nel 1994, il primo contro Mauro Rostagno a Trapani, il secondo contro don Peppino Diana a Casal di Principe, nel Casertano che sono rimasti impressi nella mia memoria. Parlo di due storie che hanno percorso gli ultimi trent’anni e che danno un’immagine di quello che è diventato questo Paese con la crescita sempre più forte del rapporto tra mafia e politica.
A tale proprosito vale la pena di ricordare almeno il saggio straordinario di due antropologi come Jane C.Schneider e Peter T.Schneider (Un destino reversibile. Mafia, antimafia e società civile a Palermo; edizioni Vella) i quali confermano come la mafia si possa combattere soltanto con la mobilitazione di tutti e puntando sull’educazione civile dei siciliani, come degli italiani. Perché il problema non cambia passando da Palermo a Napoli, Roma e Milano.


La vita e l’esperienza umana di don Peppino Diana fino al suo assassinio sono un esempio, tra i più rari e significativi, che io abbia avuto occasione di conoscere nell’ultimo trentennio (paragonabile a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino).
Don Peppino viene ucciso all’alba del 19 marzo 1994 nella sacrestia della sua parrocchia a Casal di Principe, in provincia di Caserta.
Ha 33 anni ed è prete da dodici anni, da cinque anni parroco nella parrocchia San Nicola di Bari; da dieci anni assistente diocesano degli scout. Cooperatore del vescovo della diocesi di Aversa monsignor Gazza, promotore e tra gli estensori del documento del 1991
Per amore del mio popolo firmato dai sacerdoti della forania di Casal di Principe.
In un’intervista concessa l’anno dopo, nel gennaio 1992, prima dunque delle stragi di Falcone e Borsellino, al mensile Lo spettro di Aversa Diana spiega il significato del documento e la sua concezione sacerdotale e l’obbligo di testimoniare fino alla morte che sente arrivare: «Il documento nasce fondamentalmente dall’esigenza di calare la Chiesa nella realtà vissuta.
La Chiesa ha tra le mani uno strumento che Dio le ha consegnato: il Vangelo. È proprio in nome di questo “lieto annuncio”, questa parola di Dio, – spada a doppio taglio – che noi dobbiamo “fendere” la gente per metterla in crisi».
A quale Chiesa pensa?, gli chiedono. Risponde: «A quella che il Signore Gesù Cristo ha voluto, quella impegnata nel sociale, la Chiesa dei poveri, degli ultimi, degli emarginati (vedi Evangelisti e testimonianza della carità). Noi ci stiamo dentro per servire anche chi subisce violenza».
Una risposta che fa capire perché la camorra lo uccise il 19 marzo del 1994. Come non è difficile capire perché sia stato ucciso qualche anno prima il torinese Mauro Rostagno (1942) che conobbi e frequentai quando insegnavo in quella, allora splendida, università di Torino. Mauro cresce nel capoluogo piemontese e, dopo esperienze giovanili in Germania e in Inghilterra, si stabilisce a Milano dove prende la licenza liceale per fare il giornalista, si iscrive nel 1968 alla Facoltà di Sociologia di Trento e diventa uno dei leader della protesta studentesca.
Dopo una laurea a pieni voti in Sociologia si trasferisce nel 1972 a Palermo dove è assistente nella cattedra di Sociologia di quella università ma fa anche il leader di Lotta continua fino al 1976 quando il movimento si scioglie definitivamente.
È un marxista libertario, polemico con i comunisti e, per un breve periodo, vicino ai socialisti italiani in quegli anni investiti dal ciclone Craxi.
Nel 1981 fonda la comunità Saman insieme a Francesco Cardella e ad Elisabetta Roveri sua compagna che tutti conoscevamo come Chicca Roveri, con la loro figlia Maddalena.
Negli anni Ottanta Rostagno lavora in Sicilia come giornalista e conduttore per l’emittente televisiva locale Radio Tele Cine (Rtc) dedicandosi a denunciare le collusioni tra mafia e politica locale.
Il 26 settembre 1988 paga la sua passione politica e sociale e il suo coraggio con la vita: viene assassinato per mano mafiosa, in un agguato in contrada Lenzi.
Soltanto ora, grazie a nuove indagini e a Matteo Messina Denaro.
La mafia del camaleonte (Rubbettino, pp.290, 16 euro) di Fabrizio Feo, emerge – dopo i soliti depistaggi – che l’omicidio venne ordinato dal padre di Matteo Messina Denaro allora capo della mafia trapanese e che i killer furono due, Vincenzo Mazzara già imputato e il giovane Matteo, finora escluso da ogni imputazione e oggi capo dei capi.
La mafia come metodo: ecco quello che si afferma in quegli anni in Italia.

tratto da: Antimafia Duemila  http://www.antimafiaduemila.com/content/view/33041/78/

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