Gratteri, Chinnici e Nicaso: l’evoluzione delle mafie
di Sara Levrini
Quasi 1200 espositori, circa 300mila visitatori attesi, più di 1000 incontri di approfondimento e dibattito, libri di ogni genere, forma e contenuto immaginabile: questo è stato il contorno dell’incontro svoltosi ieri al Salone Internazionale del Libro di Torino. Gli ospiti non hanno bisogno di presentazioni perché la loro storia e il loro impegno parlano per loro: Caterina Chinnici, magistrato specializzata in giustizia minorile e figlia del giudice Rocco Chinnici ucciso dalla mafia a Palermo il 29 luglio 1983, Nicola Gratteri, anche lui magistrato, noto per le sue indagini contro la ‘ndrangheta, Antonio Nicaso giornalista, tra i massimi esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale. Punto di partenza del confronto, due libri: È così lieve un tuo bacio sulla fronte di Caterina Chinnici sulla figura professionale ma soprattutto umana di suo padre, e Acqua santissima di Antonio Nicaso e Nicola Gratteri, libro molto discusso e a tratti osteggiato che tratta le connivenze o al contrario le opposizioni tra mafie e Chiesa.
I tre ospiti si confrontano sulle evoluzioni delle mafie e Caterina Chinnici ricorda una frase che suo padre parafrasava dal celebre Gattopardo, dicendo che “la mafia si trasforma ma rimane sempre uguale a se stessa”, sottolineando quindi che la mafia (purtroppo più dell’antimafia) è pronta ad evolversi e a cogliere le nuove opportunità senza mai perdere, però, la sua identità profonda. L’antimafia al contrario rimane molti passi indietro, all’estero molto più che in Italia, indebolita da contrasti interni sul piano dell’impegno civile e lenta nelle riforme sul piano giuridico.
Delle arretratezze legislative parla anche Nicaso, evidenziando soprattutto le difficoltà della collaborazione tra Stati: un esempio su tutti è quello dei paesi di common law (principalmente quelli anglofoni), dove l’associazione criminale non essendo un fatto personale ma appunto associativo, non è perseguibile come reato, e le indagini patrimoniali essenziali per seguire i capitali delle mafie si possono svolgere solo in campo civile. Per non parlare, naturalmente, degli ostacoli che si incontrano nelle traduzioni da una lingua all’altra di termini e concetti assenti nelle altre culture.
Il Procuratore Gratteri parla anche delle infiltrazioni della ‘ndrangheta negli incarichi pubblici: medici, giuristi, notai, dipendenti della Pubblica Amministrazione formalmente incensurati ma legati a doppio filo alla criminalità organizzata fanno sì che qualsiasi esigenza dei cittadini venga filtrata dal controllo della ‘ndrangheta. La sfida nella quale investire è dunque l’educazione delle giovani generazioni: “un ragazzo non mafioso – spiega il magistrato – esce da scuola e si chiude in camera sua davanti ad un computer; un ragazzo mafioso esce da scuola e tornato a casa si nutre di cultura mafiosa”. Il ruolo della scuola diventa allora essenziale anche al di fuori delle lezioni curricolari: l’esercito di insegnanti auspicato da Falcone viene richiamato da Gratteri con la proposta che i soldi dell’antimafia vengano investiti nei doposcuola e nelle attività ricreative per i giovani, in modo da creare valide alternative di vita.
In ultimo Caterina Chinnici parla della solitudine in cui spesso vengono costretti i magistrati antimafia: suo padre, uno dei pochissimi sostenitori della legge Rognoni – La Torre, o Gaetano Costa, abbandonato dai suoi colleghi al momento della firma degli ordini di cattura per il boss Rosario Spatola e i suoi sodali. Solitudine che nel peggiore dei casi porta alla condanna a morte da parte della mafia, nel migliore, ad una vita di continui attacchi e diffamazioni nel tentativo di minare la credibilità di chi si impegna nella lotta alle mafie.
Il cambiamento più grande può venire dalla presa di coscienza e dalla corresponsabilità dei cittadini, e sicuramente quei 600 posti della Sala Gialla del Lingotto occupati da scolaresche e visitatori di tutte le età è un buon punto da cui ripartire.
https://liberapiemonte.it/2014/05/10/gratteri-chinnici-e-nicaso-levoluzione-delle-mafie/
RESTIAMO UMANI -Lampedusa Città dell’Europa-
articolo di Mariagiulia Fava
Appena si arriva nel paese di Lampedusa saltano all’occhio una vegetazione rada, casette giallo stinte, alcune pericolanti e abbandonate, un senso di trascuratezza che non si può fare a meno di notare. Passano pochi giorni e dietro quell’ isola che così precipitosamente si percepisce come desolata, soprattutto nel mese di Aprile, si mostra una Lampedusa che si coglie piano piano, che si lascia vivere. Una Lampedusa che io ho vissuto attraverso il campo di lavoro che ha visto unite le associazioni di Emmaus Italia, Libera e Legambiente in una settimana che prevedeva una prima parte di lavoro manuale, pulizia dell’ isola dai rifiuti e raccolta di materiale inutilizzato porta a porta, e una seconda di confronto e dibattito sul tema immigrazione nel convegno ” Lampedusa Città dell’ Europa”. Un’ esperienza intrapresa con la voglia di fare qualcosa di concreto per quell’isola mi ha fatto capire come a volte si sottovaluti quanto ti sappia dare quella stessa realtà che vedevi come bisognosa di aiuto, quanto sappia insegnare e quanto ti sappia far crescere una realtà come quella di Lampedusa.
Un’ esperienza condivisa con persone che con il loro modo di essere e di esserci in ogni cosa mi hanno trasmesso un senso di umanità che emergeva dalla semplicità di ogni gesto, un modo di vivere che non si poteva non assimilare, che si traduce nell’ attenzione alla persona prima della cornice sociale che la limita, nel saper dar importanza più a quello che ci rende simili che a quello che ci rende distanti; le stesse associazioni di Emmaus Legambiente e Libera, che quotidianamente rappresentano realtà diverse, si sono trovate unite più che mai grazie a quei valori sottesi che difendono, il senso di umanità e l’ attenzione all’ altro.
Entrare a contatto con la popolazione di Lampedusa, con il loro modo di vivere, attraverso la raccolta porta a porta è stato motivo di un ulteriore arricchimento. Perché a Lampedusa anche solo semplicemente bussare alla porta di un estraneo è motivo di scambio, due chiacchiere che non ti vengono negate, storie raccontate, un’ ulteriore attenzione alla persona che si ha davanti, un’ ulteriore prova di quel senso di umanità che traspare dall’ isola. Racconti di quando c’ erano i migranti sull’ isola, dei vestiti e dei pasti offerti loro, prove di umanità raccontate con semplicità come se non racchiudessero niente di straordinario, e in quel modo così modesto di raccontare ti rendi conto di come sia grave essere arrivati al punto di ritenere straordinario, al punto che si pensa all’ attribuzione di un premio Nobel ai lampedusani, un comportamento così semplice come prestare aiuto a chi ne aveva bisogno. Capisci come quello che è stato fatto dai lampedusani rappresenti il minimo e di come farlo passare per eccezione metta al sicuro chi non vuole neanche fare questo minimo.
In quest’ aria di umanità che Lampedusa ha saputo trasmettermi nei primi giorni, arriva quello del convegno “Lampedusa città dell’ Europa” che si apre con un intervento del sindaco Giusi Nicolini , un discorso chiaro senza giri di parole, di denuncia verso uno Stato più attento ai numeri che alle persone, un elogio ai lampedusani, alla prova di umanità mostrata , il pericolo di un’ emergenza che viene creata attraverso “soluzioni” che non consentono il rispetto dei diritti fondamentali dell’ uomo come lo stipare più di migliaia di migranti in una struttura non adeguata ad accoglierli, dove vengono trattati alla stregua di animali. Parole di verità e denuncia , un modo di porsi così diretto che colpisce, l’ interesse e l’ amore per la propria isola nella testimonianza di una politica volta al bene comune non può non lasciare il segno.
Sono numerosi gli interventi, vengono denunciate le politiche europee che violano lo stesso articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ Uomo, politiche come Frontex volte al solo scopo di identificare, respingere e espellere quelli che non vengono definiti se non come “clandestini”. Le testimonianze di chi anni prima aveva vissuto in prima persona i “viaggi della speranza” ti fan render conto per un attimo a che punto si è giunti. Vengono fatte proposte alternative, proposte di chi non ammette politiche disumane, proposte così facilmente realizzabili se solo si facesse politica volta al bene comune, volta al rispetto delle persone che fanno parte del nostro paese e di quelle che vi vogliono entrare. Quel senso di umanità percepito appena arrivata a Lampedusa si esprimeva più che mai in ogni singolo intervento, in quei valori che ognuno sentiva propri e di cui non ne ammetteva la continua violazione.
Sul volo di ritorno gli spunti di riflessione non mancano, la vicinanza di una realtà che troppo spesso vuole essere dipinta come estranea a noi, la stessa parola “straniero” vuole rimarcare questo distacco, una realtà tenuta volutamente lontana dagli occhi di tutti, persone segregate in campi d’ accoglienza come se fossero un entità a parte, la causa scatenante di un’ emergenza che troppo spesso ci ha fatto scendere a compromessi. Ma quando quelle cifre diventano volti nessuna scusa regge, quando quella barriera che ha permesso di parlare di un “noi” e di un “loro” crolla si capisce l’ assurdità della paura scatenata da un fatto così naturale come la migrazione. E al ricordo di quando hai camminato nel cimitero di Lampedusa un senso di vergogna ti colpisce, vergogna di appartenere a un paese che non ha voluto evitare la morte di persone che altro non volevano che una vita migliore, un paese che ha troppo spesso difeso il fattore economico e troppo poco quello umano. Il peso della responsabilità che il mondo occidentale di cui fai parte ha verso queste vite mancate grava su di te e ti porti a casa questo peso insieme a quel senso di umanità che hai vissuto e che è diventato la prova di come restare umani sia possibile, di come restare umani sia il minimo che si possa fare.
“Nunca mas” incontro con Taty Almeida
Giovedì 10 aprile il Collettivo di giurisprudenza ha organizzato un incontro con Ugo Zamburru, presidente di Arci Torino, e Taty Almeida, una delle “Madres de Plaza de Mayo – Linea Fundadora”, associazione di madri di desaparecidos argentini che dal 1977 lotta per avere la verità sui loro figli.
Per comprendere a pieno il fenomeno dei desaparecidos è necessario, come afferma Ugo Zamburru, conoscere il contesto storico di quegli anni (’70). Infatti mentre in Italia si assiste alle lotte di classe, al terrorismo e alle stragi di stato, in quel periodo in Argentina si sta tentando di porre in essere tramite un colpo di stato una strategia postliberista che avrebbe dovuto poi essere applicata, date le somiglianze economiche, anche nel nostro paese: a prova di ciò vi è il fatto che Licio Gelli frequentasse la Esma di Buenos Aires (il più grande e attivo centro di detenzione illegale e tortura delle persone scomode al regime della giunta) ai tempi di Videla.
Molte sono anche le imprese che hanno partecipato in quegli anni a perpetrare i crimini del regime, ad esempio la Dalmine, ditta italiana a partecipazione statale, possedeva uno stabilimento in Argentina dove negli scantinati c’era un lager clandestino, la Mercedes e la Renault denunciavano al regime i dissidenti politici all’interno delle loro fabbriche i quali poi diventavano desaparecidos, tra le varie industrie sotto inchiesta per i crimini di quegli anni risulta pure la Fiat a riprova della collusione dell’Italia con il regime argentino.
Chi è Taty Almeida? E’ una signora argentina di 83 anni madre di tre figli, come ama ripetere anche se il secondo, Alejandro Martin Almeida, è desaparecido dal 17 giugno 1975 per mano del gruppo paramilitare anticomunista “la tripla A” (Alianza Anticomunista Argentina).
Alejandro era un ragazzo di ventanni, lavorava e studiava ed era un militante politico, anche se questo non lo disse mai a sua madre per proteggerla. Quando non lo vide tornare a casa Taty cercò fra le sue cose per avere sue notizie e scoprì un’agendina di 24 pagine dove scrisse 24 poesie, una per pagina, e una di queste era dedicata proprio a Taty
Se la morte
Mi sorprende
Lontano dal tuo ventre
Perché per te
Noi tre siamo ancora dentro di te;
Se mi sorprende
Lontano dalle tue carezze
Di cui ho tanto bisogno;
Se la morte mi abbracciasse forte
Come ricompensa
Per aver amato
La Libertà,
E i tuoi abbracci allora
Solo stringeranno ricordi,
Pianti e consigli
Che non ho voluto ascoltare,
Vorrei dirti mamma
Che una parte di quello che sono stato
Lo ritroverai
Nei miei compagni,
L’ appuntamento di controllo,
L’ ultimo,
Se lo sono portati via loro,
I caduti, i nostri caduti,
Il mio controllo, il nostro controllo,
E’ in cielo,
e ci sta aspettando;
Se la morte
Mi sorprende
In questo modo così amaro,
Ma onesto,
Se non mi lascia il tempo
Per un ultimo grido
Disperato e sincero,
Lascerò il respiro,
L’ ultimo respiro,
Per dire
Ti voglio bene.
In quegli anni (1974-75) l’Argentina era sotto la presidenza di Isabel Peron (moglie del dittatore Huan Domingo Peron) e alla guida c’era un governo formalmente eletto in modo democratico, ma fu proprio in quegli anni che ha inizio il terrorismo di stato e i primi desaparecidos per opera della Tripla A, organizzazione fondata in quegli anni dal segretario personale di Juan Domingo Peron, Jose Lopez Rega.
La situazione politica era alquanto instabile, si stava preparando il golpe che nel marzo del 1976 portò al potere Videla, si contavano già 1500 desaparecidos e dei 600 lager clandestini diffusi su tutto il territorio ben 3 erano già attivi prima dell’avvento della dittatura. Proprio per questi crimini, è cronaca di questi giorni, l’Argentina ha fatto richiesta di estradizione di Isabel Peron alla Spagna.
Giovedì 30 aprile 1977 quattordici madri, guidate da Azucena Villaflor de Vincenti, andarono in Plaza de Majo a Buenos Aires davanti alla Casa Rosada, sede del governo per chiedere ingenuamente di poter parlare con Videla per sapere che fine avessero fatto i loro figli, molte erano convinte che fossero ancora vivi, non si conosceva ancora la parola desaparecidos. Dato che in quel periodo era stato dichiarato lo stato d’assedio non si poteva camminare assieme nella piazza in più di tre persone, allora loro si misero a due a due e da quel giovedì 37 anni fa tutti i giovedì le Madres de Plaza de Majo si ritrovano lì davanti per chiedere giustizia e verità per i loro figli.
Taty ha impiegato molto tempo prima di entrare nel gruppo delle madri di Plaza de Majo poiché la sua famiglia era composta tutta da militari e profondamente antiperonista, proprio per questo nel 1976 quando ci fu il golpe di Videla lei era convinta che fosse una fortuna perché finalmente si era fatto cadere Peron il quale credeva fosse il responsabile della scomparsa di suo figlio Alejandro.
Afferma che da quel 17 giugno 1975 lei non è più la stessa, ama ripetere: “Alejandro ha partorito una nuova Taty Almeida”, una donna che ha imparato a lottare per la verità e la giustizia e che nonostante i suoi 83 anni ancora ha la forza e la vitalità che le permettono di girare il mondo per raccontare la storia di suo figlio.
L’associazione ha 37 anni e nel tempo ha subito varie delusioni, conquiste e lutti. Nel dicembre del ’77 tre madri tra cui la fondatrice Azucena vennero sequestrate, torturate e poi buttate nell’oceano vive con uno dei tanti “voli della morte”. Non subito vennero ascoltate, anzi all’inizio furono schernite e soprannominate le “locas de Plaza de Majo”, ma come afferma Taty loro erano sì pazze, ma pazze di dolore, rabbia e impotenza che però si trasformò in amore per i loro figli e nella continuazione della loro lotta.
Nel 1981-2 finì la dittatura e grazie alle testimonianze dei sopravvissuti esse seppero che i loro figli non erano più vivi, ma politicamente li ritengono “detenudos y desaparecidos” finchè non verrà detta loro tutta la verità.
La loro lotta si basa su tre pilastri: Memoria, Verità e Giustizia.
Memoria perchè un popolo che dimentica il suo passato rischia che si ripeta di nuovo.
Verità vuol dire sapere dove sono tutti e 30 mila i loro figli per dar loro una tomba dove piangerli.
Giustizia va intesa come giustizia legale, è ben diversa dalla vendetta come amano spesso ricordare.
Nel 1983 arrivò il primo presidente argentino democraticamente eletto: Alfonsin. Instaurò una commissione d’inchiesta, sovrannominata “Nunca mas” -“mai più”-, che fece processare da tribunali civili e non militari i militari per i crimini commessi. Purtroppo la situazione politica nel paese non era ancora stabile infatti per reazione agli arresti e agli ergastoli nel 1987 dei militari occuparono il parlamento, costringendo il presidente a emanare due decreti salvamilitari così che non furono processati.
In Argentina non si potevano quindi fare più processi, ma in Francia, Spagna e Italia sì e molti militari vennero condannati in contumacia, con conseguenze nulle poiché non potevano essere estradati all’estero essendo già stati assolti in patria.
Infine il presidente dopo, Menem, fece un indulto finale per salvare i pochi che in quegli anni erano andati in galera.
Nel 2003 finalmente il presidente Nestor Kirchner, grazie alla lotta delle madri, assunse la politica dei diritti umani come politica di stato e ripartirono grazie a nuove leggi i processi: 521 sono i genocidi condannati, più di mille i processati fra militari, clero, impresari, medici, etc.
LINK UTILI:
http://www.24marzo.it/index.php?module=pagemaster&PAGE_user_op=view_page&PAGE_id=139
http://www.giannimina-latinoamerica.it/612-ernesto-sabato-peccato-per-quei-qdue-demoniq/
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Nunca_m%C3%A1s
http://it.m.wikipedia.org/wiki/ESMA
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Juan_Domingo_Per%C3%B3n
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Isabel_Mart%C3%ADnez_de_Per%C3%B3n
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Jorge_Rafael_Videla
http://it.m.wikipedia.org/wiki/La_notte_delle_matite_spezzate
Dario Colella
La rassegna che non si rassegna- Marzo 2014
La rassegna stampa di Marzo è disponibile online. I maggiori articoli sulle mafie dei principali giornali italiani ed esteri dello scorso mese in un pdf!
Clicca qui per scaricare il pdf: Rassegna stampa marzo 2014
21 marzo 2014 -la rete in Europa
Andare all’estero non significa perdere i legami con la propria terra. Non significa staccare la spina e voltare le spalle al proprio Paese. Andare all’estero significa anche portare pezzi del proprio Paese in altri Stati. Significa far viaggiare la propria terra attraverso le tue azioni. Alcuni ragazzi in Erasmus o in specialistica hanno voluto portare nel loro Paese ospitante il meglio dell’Italia : il movimento antimafia. L’hanno fatto in modo semplice, attraverso interviste su cosa i loro amici stranieri pensassero della mafia e attraverso una breve lettura dei nomi delle vittime innocenti di mafia. L’hanno fatto per aggiungere nuovi nodi alla rete. Per crescere sempre di più perché l’antimafia deve organizzarsi anche al di fuori dell’Italia. Bisogna preparare il tessuto sociale ad accogliere il fenomeno mafioso, creare gli anticorpi, fornire le conoscenze per comprendere cosa accade e quindi apprestare gli strumenti utili per prevenire e combattere le mafie. Girare questo video ha dimostrato come ci siano tanti ragazzi pronti ad accogliere la proposta di creare una rete di legalità e giustizia. C’è tanto da fare a livello di formazione e sensibilizzazione. Bisogna partire dalla memoria. Ricevere pugni nello stomaco per poi tramutare la rabbia in energia operativa. Il primo 21 marzo a Bruxelles, cuore dell’Europa, è stato un segnale importante. E’ stato il primo passo di un percorso che necessita dell’attenzione e sostegno di tutti. Siamo già in ritardo rispetto alle mafie. Queste hanno varcato i confini già da anni. E’ giunta l’ora che anche l’antimafia lo faccia con più convinzione e determinatezza. C’è il bisogno del sostegno di tutti. Grazie a chi si pone obiettivi ogni giorno più grande e si butta in nuove imprese non avendo il sentiero già tracciato.
guardate il video e condividete 🙂
https://www.youtube.com/watch?v=UlRV7es5rbc
Sara Secondo
La Rassegna che non si rassegna- Febbraio 2014
La rassegna stampa di Febbraio è online. I maggiori articoli sulle mafie dei principali giornali italiani ed esteri dello scorso mese in un pdf, adesso anche con foto!
Qui il link per leggere e scaricare il pdf: Rassegna stampa Febbraio 2014
PERDONACI, IGNAZIO.
Ignazio Cutrò nasce a Bivona il 2 Marzo 1967 e diventa un imprenditore siciliano.
Non è un imprenditore qualunque, è un imprenditore onesto e l’onestà, a Bivona, non è ben accetta.
E’ la sera del 10 Ottobre 1999 e la vita di Ignazio cambia radicalmente; inizia quella che sarà una serie di attentati che andranno avanti fino al 2007.
Quella sera, infatti, in contrada Canfutino gli viene incendiata una pala meccanica; causa: incendio doloso.
Il giorno dopo Ignazio deposita la denuncia contro ignoti : sarà la prima di una lunga serie.
Ma Ignazio non si abbatte, smonta la pala, la rivernicia, compra i pezzi di ricambio e finalmente, dopo 8 mesi di lavoro, la pala riprende a funzionare.
Nel Maggio 2006, dopo aver ricevuto l’invito per una gara d’appalto da parte dell’E.S.A. per la sostituzione di una condotta idrica in Contrada Donna a Ribera (Ag) , si aggiudica l’appalto e inizia i lavori.
Lavori che però durano molto poco.
Il pomeriggio del 23 Maggio gli arriva una telefonata : le tubature pronte ad essere immesse nello scavo sono state incendiate.
Con la testardaggine che lo contraddistingue Cutrò ricompra tutti i materiali e riesce a terminare i lavori per il termine previsto. Deposita la seconda denuncia contro ignoti.
Passano pochi mesi prima del nuovo attentato.
E’ il 23 Novembre 2006 e vengono incendiati tutti i mezzi che aveva in Contrada Castagna.
Gli attentati e i segnali minatori si susseguono ininterrottamente, a intervalli sempre più brevi l’uno dall’altro.
La terza legge della dinamica ci insegna però che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria; è proprio il 2006, infatti, l’anno in cui Ignazio decide di diventare testimone di giustizia.
Grazie alle sue dichiarazioni e deposizioni viene avviata l’operazione “face off” che porterà all’omonimo processo che ha visto, in sede finale, nel 2011, la Corte di Cassazione rigettare i ricorsi dei difensori di Luigi Panepinto, Maurizio Panepinto, Giovanni Favata e Domenico Parisi accusati di associazione mafiosa ed estorsione, rendendo definitive le loro condanne.
Minacce ed estorsioni continuano, l’apice viene raggiunto la mattina del 19 Settembre 2007.
Dopo aver guidato per recarsi a lavoro, Ignazio si rende conto che nella sua macchina erano state messe delle cartucce di arma da fuoco. E’ in questo momento che Ignazio capisce di essere vulnerabile, che il suo coraggio e la sua testardaggine non bastano, gli serve protezione, ma nessuno riesce o vuole garantirgliela.
Quando nessuno ti garantisce la protezione minima necessaria capisci che te la devi garantire da solo. Ignazio però non è solo, ci sono molti altri nella sua condizione che dicono basta e che decidono di unirsi per uno scopo comune: autodifendersi.
E’ il 3 Febbraio 2013 il giorno in cui lui e altri 36 testimoni di giustizia depositano l’atto costitutivo perla nascita dell’ASSOCIAZIONE NAZIONALE TESTIMONI DI GIUSTIZIA di cui Ignazio è presidente.
Purtroppo però l’auto-protezione, il coraggio e la testardaggine non possono bastare, non possono sconfigge la crisi economica e non sono sufficienti per colmare le lacune e le mancanze delle istituzioni, lacune a volte superficiali a volte troppo profonde per essere giustificate.
Prima di denunciare per tutelare il suo lavoro non poteva sapere che quella denuncia, il lavoro, glielo avrebbe fatto perdere .
Come ha scritto Ignazio stesso, pochi giorni fa, in una lettera inviata al Presidente della Commissione Centrale di Sicurezza : “Le scrivo per comunicarLe che oggi vince la mafia a Bivona, si è proprio così, sarò costretto a fare le valige ed andare via con la mia famiglia dalla mia terra. (…)
Io ho cercato di lavorare, ho cercato di mantenere la mia famiglia ma non ci sono riuscito dopo che ho denunciato. Tutto da quel momento mi è andato contro, economicamente parlando nemmeno le Istituzioni hanno impedito che io e la mia famiglia perdessimo tutto.”
La mafia ha vinto ma a perdere non è stato Ignazio Cutrò.
A perderci sono le Istituzioni di uno stato malato che davanti ai testimoni di giustizia non ha saputo per l’ennesima volta garantire la protezione e la dignità che meritano.
Ignazio voleva solo lavorare, voleva mantenere la sua famiglia non chiedeva niente di più. Chiedeva quello che uno Stato ha il DOVERE di dare ad un suo cittadino e ancor più a questo cittadino.
Un cittadino che ha messo al primo posto la legalità e la giustizia, che poteva scegliere la strada più semplice, stare zitto, pagare e vivere tranquillo e che invece ha scelto la strada in salita, in cui si inciampa ma ci si rialza sempre, continuamente, fino al momento in cui, però, non riesci e non sai più come alzarti.
Che Paese è quello che ti insegna che denunciare la mafia non è conveniente? Che ti fa scappare dal tuo paese e che non ti permette di lavorare? Che incentiva l’omertà e punisce la verità?
A perderci però non sono solo le Istituzioni.
A perderci siamo anche noi del mondo dell’antimafia.
Dove le Istituzioni non arrivano abbiamo l’obbligo morale di arrivarci noi, prima che sia troppo tardi.E oggi è tardi.
Perdonaci, Ignazio.
Perdonaci perché non siamo stati in grado di tutelarti, non siamo stati in grado di tutelare te, la tua famiglia e il tuo lavoro.
Fare un “mea culpa” dopo che le cose accadono non basta.
Lamentarsi di sentirsi impotenti non basta, oggi nel 2014, non può e non deve più bastarci.
Come ci ha insegnato Don Ciotti “non basta commuoversi,bisogna muoversi” e questa frase rimbomba nelle nostre teste oggi più che mai.
Perdonaci Ignazio, se puoi.
Elisa Saraco
La rassegna che non si rassegna – Gennaio 2014
La rassegna stampa di Gennaio è online. I maggiori articoli sulle mafie dei principali giornali italiani ed esteri dello scorso mese in un pdf!
#daleggere
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“Caro Paolo…”
Report sull’incontro delle Agende Rosse Torino in ricordo di Paolo Borsellino.
Oggi Paolo Borsellino avrebbe compiuto 74 anni. Li avrebbe compiuti se il 19 luglio di 22 anni fa , la sua vita non fosse stata stroncata dalla forza del tritolo ( per la precisione Semtex in utilizzo ai servizi segreti ) , esploso in via D’Amelio , sotto casa dell’anziana madre.
Ieri pomeriggio , le Agende rosse di Torino hanno voluto ricordare il procuratore Borsellino , nel miglior modo in cui si potesse fare : riflettendo su cosa sia cambiato da quel tragico 19 luglio e su cosa ancora ci sia da fare per muoverci verso la verità sulle stragi. Si può avere ancora speranza di giustizia?
Difficile rispondere in modo positivo a questa domanda dopo tanti anni di verità nascoste e alterate. Difficile essere ottimisti quando si vive in un Paese dove due magistrati non possono partecipare a un incontro pubblico in ricordo di un caro amico e collega per motivi di sicurezza.
Infatti ieri, al tavolo dei relatori, c’erano due sedie vuote. Erano quelle del sostituto procuratore Nino Di Matteo e del Procuratore Generale della Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato. Anche in questa occasione lo Stato non si è dimostrato capace di garantire loro spostamenti sicuri e la loro assenza è pesata come un macigno. Si potevano respirare nella sala indignazione e rabbia e nel momento in cui è stato aperto il collegamento skype con i due magistrati, tutta la sala si è alzata per abbracciarli con un lungo e sentito applauso. E sono state le loro parole a tramutare, ancora una volta, i nostri sentimenti in qualcosa di positivo.
Il dott. Scarpinato alla domanda sul se l’Italia voglia davvero la verità sulle stragi ha risposto che esistono tante italie, che c’è un’ Italia che non si rassegna e dà sostegno al loro lavoro. Di Matteo a sua volta ha spiegato come non importi se gli italiani meritino o meno il loro sacrificio , che nel loro lavoro non si debba pretendere il consenso e il sostegno. Ci si deve solo chiedere se ne valga la pena. E la sua idea è che sì, ne vale la pena per la coscienza e colpevolezza di essere utile alla società.
Nessuna retorica. Motivazioni semplici ma profonde, che gli fanno tirare dritto , oltre alle aggressioni, alle minacce e agli ostacoli, per portare a termine il loro lavoro al servizio della giustizia e della verità.
Di fronte al loro costante ed ostinato impegno , a noi non è dato sederci e trincerarci dietro la nostra rassegnazione.
Questo il messaggio che ci hanno lasciato anche gli altri ospiti: Sonia Alfano presidente della commissione CRIM del Parlamento Europeo, Salvatore Borsellino e Marco Travaglio.
Nei loro interventi hanno voluto ricordarci a che punto siamo arrivati sulla verità di quegli anni di stragi e meritano di essere condivisi. Proverò qui a riportarne brevemente i contenuti.
Sonia Alfano ha iniziato il suo intervento criticando l’ultimo decreto svuota carceri che permetterebbe significativi sconti di pena anche ai condannati per mafia. << Fin ora il fine pena mai l’hanno pagato solo i famigliari delle vittime di mafia, questa è l’unica certezza >> ha affermato lapidariamente. I suoi toni erano pieni di sentimento e non ottimistici. Ha sostenuto che a suo parere il nostro Paese non voglia verità, che sembri sempre di lottare contro i mulini a vento e in alcuni casi si sia anche sbeffeggiati.
Ha raccontato degli episodi nei quali, in qualità di parlamentare europeo ha esercitato la sua prerogativa di visitare i detenuti Bernardo Provenzano, Totò Riina e Giuseppe Graviano. Il suo racconto è quanto meno preoccupante.
Sonia Alfano visitò una prima volta Bernardo Provenzano il 25 maggio 2012 ,trovando un uomo in piena salute ,disponibile al colloquio e alla possibilità di iniziare ad aprirsi su ciò di cui è a conoscenza. << E’ fattibile?>> così rispose il vecchio boss di Cosa Nostra alla domanda di Sonia Alfano sul perché non iniziasse a collaborare con i magistrati. Quel primo colloquio si chiuse con la promessa di Provenzano che ne avrebbe parlato con i figli e che avrebbe dato una risposta più avanti. Sonia Alfano tornò nel carcere da Provenzano il 3 luglio dello stesso anno. Doveva essere una visita a sorpresa ma l’amministrazione penitenziaria l’ aspettava. La direttrice del carcere volle entrare con lei nella cella del boss Provenzano . Le sue condizioni di salute non erano le stesse del maggio precedente, presentava lividi sul volto e dei punti sul sopracciglio. Alla domanda su cosa si fosse fatto, rispose l’agente che si trattava di una caduta dal letto. Provenzano fu reticente, lamentandosi del fatto che in quella cella fossero in troppi. Poi Sonia Alfano gli rivolse allora in dialetto siciliano la domanda << le hanno dato dei punti? >> indicando il sopracciglio. Questa volta intervenne la direttrice, che si trovava alle sue spalle , dicendo che nessuno gli aveva dato dei pugni. Evidentemente non aveva capito il termine in dialetto ma si è sentita in dovere di rispondere così. Provenzano ha dovuto pagare per aver dimostrato segnali di apertura? E’ stato messo a tacere? L’impressione è questa. E la stessa cosa ricava la presidente CRIM in occasione di una delle visite a Giuseppe Graviano, nella quale lui affermò << per aver parlato con lei , ho pagato>>, con ciò riferendosi al fatto che nei mesi precedenti gli fosse stato impedito di farsi visitare da un medico, ricevere libri e farsi confessare .
Clima completamente diverso quello negli incontri con Totò Riina, nei quali questi ha potuto addirittura esprimere minacce di morte all’Alfano per le quali è stato rinviato a giudizio.
Per Sonia Alfano esiste dunque il protocollo “farfalla” che non è altro che un accordo tra il Dap e il Sisde per il monitoraggio dei detenuti per associazione mafiosa al fine che non collaborino con la giustizia.
Il suo intervento si è chiuso però con una nota positiva. Ha parlato del grande successo ottenuto lo scorso 22 ottobre, con l’approvazione quasi unanime da parte del Parlamento Europeo della risoluzione per la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione . I risultati principali: tutela dei commercianti che si ribellano al racket, confisca e riutilizzo dei beni dei mafiosi, istituzione e tutela del testimone di giustizia, abolizione del segreto bancario, previsione del reato di associazione mafiosa, black list delle imprese in mano ai mafiosi per le gare di appalto, incandidabilità e decadenza per i condannati in via definitiva per gravi reati, introduzione del reato di autoriciclaggio ( in quest’ultimo caso superando la legislazione italiana ). Facile capire come siano conquiste di non poco conto per la lotta alla criminalità organizzata che sempre più allarga i suoi traffici e si insedia oltre confine.
La parola è poi passata a Salvatore Borsellino : << le parole di Riina dal carcere non sono minacce ma offerte allo Stato>>. Totò Riina ,a seguito di alcuni lettere e pizzini arrivati alla procura di Palermo informando del pericolo in cui incorrevano i magistrati requirenti del processo sulla trattativa, è stato intercettato durante le ore d’aria nel carcere di Opera. In una di queste, riferendosi a un attentato a Di Matteo, Rina affermò : è tutto pronto , lo faremo in modo eclatante.
Dello stesso avviso è Marco Travaglio che spiega come queste non possano essere definite minacce ma piuttosto condanne a morte. Non è più adeguato, ha spiegato Travaglio, parlare di trattativa Stato – mafia. Non ci sono due parti nettamente distinte che siedono a un tavolo, dopo anni di guerra, per fare pace. Ci sono invece una serie di personaggi che stanno da entrambe la parti,” uomini cerniera ” che si vestono da uomini delle istituzioni e fanno gli interessi della mafia. Un esempio fra tutti Bruno Contrada, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma perché Riina teme così tanto che i magistrati di Palermo scoprano la verità sulle stragi del ‘ 92/ ’93?
Non di sicuro per paura della condanna dato che deve scontare già una serie di ergastoli. Ciò che teme, è che venga meno la sua figura di boss e stragista , che appaia una misera pedina mossa da poteri ancora più forti. Interesse diverso dunque dagli uomini delle istituzione che temono invece il venir meno della loro immagine intonsa. Riina ha capito che i magistrati di Palermo , grazie all’esperienza e alle conoscenze che hanno accumulato , sono gli unici capaci di capire la verità su quegli anni e dunque se lui è così preoccupato, è perchè la verità è un po’ più vicina di qualche anno fa – così ha chiuso Travaglio.
Per concludere, riprendo la domanda iniziale . Si può ancora avere speranza?
Salvatore Borsellino spiegando la sua esperienza, di come abbia trasformato la sua rabbia, riuscendo a parlare dopo undici anni di silenzio , con voce commossa e commovente ha urlato che lui ha speranza. Non perchè crede di poter vedere la fine in prima persona. Ha speranza perchè quando lui non avrà più la forza di parlare e gridare, è consapevole che ci saranno tanti altri a farlo al posto suo, tanti giovani che porteranno avanti la pretesa di giustizia e verità.
Queste parole hanno regalato a tutti noi il senso di ritrovarsi un sabato pomeriggio e fare il punto sulla lotta alla mafia , per continuare a cercare verità e a interrogarci sui lati più oscuri della storia del nostro Paese. Le sue parole di speranza hanno nutrito la nostra speranza. Non lasceremo il posto della nostra sete di giustizia alla rassegnazione. Continueremo sui passi di chi ha aperto la strada alla ricerca della verità. Questo il miglior modo per ricordare e portare avanti la memoria di Paolo Borsellino.
Sara Secondo