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Il punto di vista di un docente

Riporto un articolo scritto da un docente sulla situazione attuale.
Segnalateci quelli interessanti che leggete, su questa o altre tematiche, così ci confrontiamo e cresciamo.

Il mondo salvato dai ragazzini

L’altroieri scopro che Adriano Prosperi, illustre docente di storia moderna a Pisa, firma abbastanza abituale di “Repubblica” e persona abbastanza per bene rispetto alla media dei colleghi ha pubblicato sul quotidiano un lungo articolo dal titolo inusuale “Cosa dare agli studenti”. Siccome i giovani e gli studenti sono sempre l’ultimo dei pensieri dei docenti accademici la cosa mi incuriosisce e leggo l’articolo. Ne rimango piuttosto frastornato e per ventiquattro ore non riesco a darmi ragione di questo mio spiazzamento.

Prosperi dice in sostanza: una società senza un sistema di formazione pubblico va alla deriva. Questi stanno cercando di affondare in tutti i modi e per sempre la formazione pubblica in Italia. Genitori, docenti e studenti finalmente se ne accorgono e cominciano a far sentire la loro voce. Bene. Gli studenti sono in piazza e speriamo che ci restino. Ma gli altri? E, soprattutto: i docenti universitari? Beh, continua Prosperi, guardiamo a un libro recente che fa impressione, quello di Perotti sull’università italiana. Ha denunciato con numeri, nomi e cognomi come all’università si assumano solo i parenti e i portaborse, del tutto a prescindere dalle loro capacità. E non succede nulla: nessuno si offende, nessuno protesta, nessuno prende provvedimenti, niente di niente. Sconvolgente. Oggi, conclude Prosperi, questi ragazzi e queste ragazze al contrario del ‘68 cercano di coinvolgere i docenti, di ottenere la loro approvazione e il loro consenso. Sarebbe assolutamente salutare invece che si tenessero il più lontano possibile da costoro, indistintamente autori o quantomeno complici del fallimento generalizzato dell’università italiana e della sua corruzione.

L’articolo di Prosperi mi spiazza perché mescola alcune cose sacrosante e altre ambigue, ma soprattutto perché non ne capisco bene la logica: che sta dicendo, che vuol dire, tanto più che viene da un accademico e certo non di primo pelo?

Mi sembra ingenuo, ad esempio, quando si stupisce perché il libro di Perotti non susciti scandalo né reazioni né provvedimenti. Esso dentro l’università non suscita né scandalo né alcuna reazione apprezzabile
perché dice l’ovvio, ciò che tutti sanno benissimo perché è pane quotidiano e ragione di vita indistintamente di tutti, vittime e carnefici. Fuori non suscita scandalo perché gli accademici da un lato permeano le istituzioni, a partire dal parlamento, e sono in questo senso degli intoccabili, e dall’altro in quanto accademici non pesano più di tanto sulla vita politica e culturale del paese, non sono ingombranti né invasivi. Come ci spiegò Bourdieu ormai quaranta anni fa sono una “frazione dominata della classe dominante”: utile, pervasiva, ma che conta relativamente poco. E il grande pubblico gli universitari non li vede, non sa bene di cosa si tratti, a che servano; è difficile oltretutto immaginare per loro un qualche provvedimento draconiano “alla leghista” o “alla brunetta” che non serva a niente ma che però stimoli adeguatamente i succhi gastrici e l’immaginario neandertaliano dei più forcaioli. L’università italiana si involtola nella propria mediocrità intellettuale e morale grazie tanto a questa invisibilità pubblica quanto alla sua granitica collusione interna. Sono io che non capisco, a questo punto, come faccia uno bravo come Prosperi a non vedere tutto ciò. E penso allora che non lo dichiari apertamente solo per un residuo di carità di patria.

Ma il punto che mi spiazza di più è l’ultimo, questo dire ai ragazzi e alle ragazze in lotta: “non vi fidate di noi, non ci cercate”. Non capisco bene, mi sfugge la logica di tutto questo. Senza docenti la lotta non può riuscire; del disagio tra i docenti c’è. E allora?

Poi ieri capisco.

Vado all’assemblea di facoltà. Tanti studenti, tante studentesse. Diversissimi da quelli della Pantera. Entusiasti e perplessi. Gravati dal fardello della responsabilità e alla ricerca di una determinazione che sentono necessaria. Tanto consapevolmente – e con sensi di colpa e di frustrazione – “piccoli” quanto noi ci atteggiavamo ad essere “grandi”. Alla ricerca, effettivamente, di un nostro consenso e di un nostro aiuto. Nuovi, commoventi. Intervengono diversi docenti, anche anziani, esperti. Anche responsabili non da poco dello sfascio attuale. E’ curioso: non tentano di dare la linea, anche se forse qualche consiglio servirebbe. Non solo sono molto rispettosi e niente affatto paternalisti: chiedono, neanche tanto implicitamente, ai ragazzi di non impaurirsi di radicalizzare la lotta. Penso all’intervento che vorrei fare e tutto mi si chiarisce: ai ragazzi e alle ragazze stiamo chiedendo – noi minoranza di persone per bene e pensose del futuro della
formazione pubblica e delle sorti del paese – di tirarci la volata, di essere talmente tanti, determinati ed efficaci da consentirci di andare nei consigli di corso di laurea, di dipartimento, di facoltà a chiedere il blocco della didattica (che magari la stessa maggioranza dei docenti in cuor suo neanche vedrebbe di cattivo occhio) senza essere guardati come dei poveri scemi, patetici e poco “per bene”. Bambini – insomma – che insistono a mettersi sconsideratamente le dita nel naso nonostante abbiano raggiunto da tempo gli “anta”. Perché è questo appunto un altro frutto avvelenato della corruzione morale universitaria: chi si batte
per i propri diritti in modo trasparente e pubblico è considerato un minus habens, uno di cui vergognarsi, e non un cittadino esemplare come sarebbe d’uopo. Esattamente ciò che è successo tre anni fa nella flebile
battaglia contro la Moratti.

Quel che stiamo dicendo a questi poveri ragazzi e a queste povere ragazze è insomma: radicalizzate la lotta, vi seguiamo, perché noi da soli non possiamo nulla. Non siamo più capaci di nulla. E penso che a questo punto dovremmo riuscire a dirlo loro in modo chiaro: a loro e – ma questo è molto più difficile – a noi stessi.

Prof. Luigi Piccioni
Dipartimento di Università e Statistica
Università della Calabria

La fonte

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