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Il bisogno politico dell'intellettualità

 Immaginiamo che cultura e politica siano due linee in uno spazio che chiameremo nazione. Sulla prima sono rappresentati il mondo culturale in genere; sulla seconda invece la politica. La norma dovrebbe essere che la politica garantisca alla cultura la sua libera espressione, proliferazione e arricchimento continuo perché da questi dipende la crescita generale dello spazio nazione. Quindi, le due linee vivono in stretto rapporto tra loro e hanno bisogno l’una dell’altra.
 Esse viaggiano nello spazio a volte distanti, a volte parallele; ci sono poi dei punti in cui si incontrano. Questo è il contatto tra politica e cultura, il quale è rappresentato da uomini e donne che mettono le loro conoscenze al servizio dello spazio nazione. Essi li chiameremo «intellettuali compromessi» con una espressione presa in prestito dallo spagnolo “intelectual compremetido” che designa appunto uomini e donne (provenienti dai diversi settori della società) i quali si compromettono in certa misura in campo politico: come protagonisti (nel dare un base intellettuale a una parte politica) o come critici esterni di tale campo (per creare una controparte al sistema di potere). Questo semplice concetto sta alla base della maggior parte delle democrazie moderne, e anche nel nostro paese, fino a poco fa, tra le fila o dietro le quinte dei grandi partiti erano presenti intellettuali compromessi, e l’opinione pubblica disponeva di critici attenti e taglienti (oggi ne rimangono pochi esempi). Il loro ruolo era ben definito e di vitale importanza, rappresentavano infatti la giustificazione a esistere di un pensiero politico. Che si fosse fascisti, liberali, democratici, comunisti o democristiani non faceva differenza: tutto aveva un punto di partenza che lo distingueva, lo relativizzava dal restante panorama politico.
 Negli ultimi anni questa relativizzazione è andata perdendosi e l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un unico grande schieramento. Le differenze sono sfumate e sempre di più si è diffusa l’opinione che da destra a sinistra l’obiettivo della classe politica dirigente sia lo stesso: rubare e mettersi a posto gli affari privati. Questa opacità è dovuta in parte all’attuale assenza di una profondità di pensiero nei partiti politici contemporanei che cercano una loro identità nella negazione del proprio passato e nei modelli che non appartengono alla nostra cultura. Inoltre, manca nel modo più assoluto la presenza di quegli intellettuali compromessi di cui parlavamo prima.
 L’assenza di profondità lascia una superficie indefinita, ma da molti considerata bella esteticamente, che da sola basta per prendersi i voti necessari a governare. Questo processo di de-relativizzazione ha portato ha una semplificazione del quadro politico parlamentare. Essa è stata salutata come una benedizione, perché ora il nostro parlamento somiglia di più a quelli di Francia, Spagna, Inghilterra, ecc. Su questo punto non insisto, lancio solo una provocazione. Il dubbio che mi rende scettico di fronte alla semplificazione è che essa sia stata provocata da un vuoto ideologico (nel senso di idee che marcano la distinzione tra due partiti) e filosofico dei nuovi schieramenti che siedono i banchi del Parlamento. La mia perplessità è la seguente: non è che l’appello al voto utile ha portato a una voluta partita a due che ha tolto di mezzo le minoranze fastidiose che si intromettevano negli interessi dei giganti della nostra politica? Mi riservo di rispondere successivamente o di lasciare che la storia ci risponda da sola.
 In conclusione, il mio intento non è quello di prendere le parti di una parte politica. Il ragionamento portato avanti fa emergere una mancanza nel nostro sistema, almeno apparente, che è quella dell’intellettualità nel mondo politico. Con questo non sto affermando che in Italia non esistano intellettuali o critici; esistono, ma, ad eccezione di pochi, non si compromettono apertamente. In questo modo da un parte abbiamo un mondo intellettuale che non vuole, non può, non gli è permesso (questo non posso saperlo io) entrare nella politica, anche se non militante, per scardinare il meccanismo che si è messo in atto negli ultimi anni. Dall’altra parte la politica è fatta da uomini e donne che sembrano non riconoscersi più in qualcosa di comune a tutti gli italiani o, quanto meno, a quelli che rappresentano (da qui il vuoto di cui sopra e la convinzione che il voto non significhi appartenenza), e che sono tristemente sempre gli stessi da dieci anni.
 Non scrivo per giudicare, ma per capire, perciò non attribuisco responsabilità. Metto, però, nero su bianco questa mancanza in Italia. Una mancanza, grave, della quale dovrebbero farsi carico tanto le vecchie generazioni quanto le nuove in modo tale le due linee, cultura e politica, tornino ad incontrarsi.

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