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Non ti pago!

Noi la crisi non la paghiamo!
Non siamo in una delle tantissime Università occupate nel nostro paese, non siamo in una scuola media superiore italiana, o in una delle magnifiche manifestazioni dell’Onda. Siamo in Germania. Nelle fabbriche, tra gli operai.
All’insegna dello slogan “Noi la crisi non la paghiamo”, i metalmeccanici tedeschi stanno conducendo la loro intensa battaglia per il rinnovo del contratto. La Confindustria tedesca offre poco più di 30 euro di aumento, gli operai ne chiedono 104. Nelle fabbriche, negli scioperi operai promossi dai sindacati tedeschi, appare tangibile il concetto di non voler finire nel mattatoio della macelleria sociale per far fronte alla crisi globale.
Lo smantellamento delle garanzie sociali, gli “aiuti” statali ai potentati economici, la distruzione della spesa sociale nella ricerca, nella formazione, rappresentano una condizione sociale comune che si sta diffondendo in tutta Europa.
Chi paga la crisi? O meglio come si paga la crisi. Certo, come detto, i tagli alla spesa sociale, ed in particolar modo alla formazione ed alla ricerca nel nostro paese, sembrano essere la prima parte di una lunga ricetta che i governi europei stanno preparando. Ma davanti ad una diagnosi elaborata in maniera multilaterale, l’applicazione della cura sarà differente caso per caso, paese per paese.
Dopo gli aiuti statali alle banche come garanzia del credito, che ha investito gli Usa e l’Europa, una enorme massa di soldi pubblici si prepara a sparire dalle casse pubbliche per finire nei conti dei grandi potentati economici.
Negli ultimi dieci anni la tendenza che si e’ sviluppata sempre di più in Italia ha visto un flusso continuo di denaro pubblico andare ad ingrossare le casse delle lobby, generando una sorta di capitalismo senza capitale, dove il rischio dell’investimento privato viene assolutamente annullato dai finanziamenti pubblici che lautamente vengono elargite ai nostri capitalisti straccioni.
Il Cipe, comitato intergovernativo per la pianificazione economica, risulta essere l’organo attraverso il quale questo meccanismo viene alimentato. La pianificazione economica nel nostro paese e’ sostanzialmente questo: soldi pubblici per le grandi opere costruite e gestite dai privati.
Il Cipe ed i suoi documenti di programmazione economica e finanziaria, risultano essere senza dubbio l’abecedario di come il capitalismo italiano si vada ad alimentare senza rischiare un centesimo, usufruendo bensì della spesa pubblica legata nella stragrande maggioranza delle volte, alla costruzione di opere inutili, dannose per il territorio, pericolose per la salute dei cittadini, e che non influiscono sostanzialmente sulle possibilità di sviluppo ulteriore delle economie territoriali, se non in senso negativo.
È ad esempio il caso dei fiori all’occhiello di quella che fu la legge obiettivo del primo governo Berlusconi. Negli atti del CIPE c’e’ la costruzione della TAV, linea ad alta velocità nella Valle di Susa, con i suoi trafori che dovrebbero bucare montagne fatte di amianto ed uranio, e la costruzione del ponte sullo stretto di Messina sono tra le principali opere.
Allo stesso modo i nostri governi hanno utilizzato le servitù militari a cui il nostro paese è soggetto nei confronti degli Stati Uniti per ingrossare le casse dei potentati economici con soldi pubblici, come nel caso dell’ampliamento dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza. Parimenti i fondi europei per lo sviluppo di energie alternative, denominati CIP 6, ovvero miliardi e miliardi di euro (43 miliardi di euro solo per il 2007), nel nostro paese vengono utilizzati per bruciare i rifiuti, avvelenare l’aria, riempire le nostre tavole di diossina. Un quadro, il seguente, che si inserisce in una decennale propensione nel nostro paese ad alimentare i potentati economici con la spesa pubblica.
Una sorta di capitalismo senza capitale, in cui i governi tagliano la spesa sociale riducendo i servizi, i diritti sul lavoro, l’assistenza sociale, l’edilizia pubblica, la spesa sanitaria, per spostare l’indirizzo della spesa pubblica verso il finanziamento di opere che servono solo a chi le costruisce.
Lo scenario di cui parliamo vede la costruzione di diverse lobby che agiscono principalmente nel campo delle costruzioni e delle multiutility (come le lobby degli inceneritoristi con il gruppo Marcegaglia in testa attraverso la Cogem e la Ecoenergia) che all’oggi, rappresentano la spina dorsale del capitalismo italiano, la cui crescita in termini di profitto è legata ai finanziamenti pubblici.
Non e’ un caso dunque che davanti al manifestarsi sempre crescente in tutta Europa di tutti coloro che non vogliono pagare la crisi, ci sono altri che vengono pagati dalla crisi.
In questi giorni tribolanti per il governo, i luminari di Palazzo Chigi e del ministero dell’economia stanno mettendo a punto un maxi decreto che sarà votato fuori dalla finanziaria. Grandi opere, gradi costruzioni, opere faraoniche, soldi a frotte per far fronte alla crisi.
Un maxi decreto da svariate centinaia di milioni di euro che il governo ha intenzione di presentare in dicembre.
Davanti alla crisi globale, davanti al manifestarsi di un movimento sempre piu’ crescente ed assolutamente moltitudinario che non vuole pagare il prezzo della crisi, il governo non fa altro che utilizzare i vecchi strumenti, amplificandoli nei termini della spesa (e di conseguenza nei termini della decisione e dell’uso della forza) per far fronte alla crisi globale. Alla presenza della crisi il capitale risponde accentuando la rigidità delle proprie movenze. La pura indifferenza del comando si trasforma in ferocia, si organizza nel ricatto della distruzione.
Il Cipe così come negli anni ’80 per il pentapartito, e agli inizi dei duemila per i precedenti governi Berlusconi diventa l’organo di pianificazione economica non del pubblico, ma dei privati.
Si spiegano in maniera più chiara le recenti dichiarazioni del premier sull’alta velocità “useremo la forza per garantire i trafori come abbiamo fatto in Campania sui rifiuti”, che segnalano la genesi di una strategia di fronteggiamento della crisi folle e suicida.
Tutti i soldi in grandi opere, mentre lo smantellamento della spesa sociale porterà ad un impoverimento generale, ad un abbassamento ulteriore del potere d’acquisto dei salari, ad un peggioramento sostanziale delle condizioni di vita. Appare dunque chiaro che l’esempio del movimento dell’Onda deve essere raccolto.
La crisi la fronteggiamo con le lotte.
All’ordine del giorno oggi, come ci dicono gli operai tedeschi, c’e’ questo, un movimento europeo contro la crisi, un insorgenza sociale capace di fermare i piani di distruzione dei governi. Nel nostro paese questo vuol dire innanzitutto la necessita’ di connettere le lotte.
Da un lato la speranza nella capacità del movimento dell’Onda di riuscire ad essere anche molto di più di quello che e’ oggi, ovvero essere il vettore di costruzione di un opposizione sociale alla crisi; dall’altro la necessità, proprio sulle grandi opere, che le comunità resistenti comprendano la portata dell’attacco che diventa molto più grande e molto più complesso. Nel mezzo il mondo del lavoro, quello pubblico e quello autonomo, tra ristrutturazzioni e privatizzazioni che vedono un costo salatissimo in termini di esuberi e peggioramento della qualità del lavoro stesso.
Il decreto sulle grandi opere risulta essere un nodo strategico per il governo, e deve necessariamente rappresentare un ulteriore passaggio di costruzione dal basso dell’opposizione sociale alla crisi, ovvero il procedere di un processo di ricomposizione sociale capace di essere protagonista del conflitto ed inceppare e destrutturare i tentativi di governare la crisi attraverso la distruzione delle garanzie sociali. Un processo di autovalorizzazione delle lotte capace di sabotare il dominio.

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