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Un trimestre in Onda

Riprendiamo questo articolo apparso sul sito www.lostraniero.net

convinti che una visione d’insieme dell’Onda possa farci bene.

 

I nuovi studenti

di Nicola Villa

In questi ultimi anni l’agitazione studentesca è rimasta piuttosto isolata: si possono ricordare dopo il 2001, cioè dopo la progressiva scomparsa dei movimenti no-global, le mobilitazioni degli studenti medi che hanno occupato licei, in quasi tutte le città in modo caotico e senza coordinarsi, e dato vita a autogestioni con o contro i professori come opposizione concreta alla riforma Moratti e alla guerra in Afganistan e in Iraq. Per quanto riguarda l’università del dopo riforma De Mauro, che ha aperto la strada alla completa massificazione dell’università italiana non migliorandola, momenti di protesta consistenti ma isolati si sono concentrati nel 2005 di fronte all’approvazione della riforma Moratti-Zecchino che, vista oggi, era solo un’antenata più blanda dei massicci decreti Tremonti-Gelmini. Ma prima di quest’anno l’università non aveva mai vissuto una rivolta studentesca così trasversale e partecipata. Tra le spiegazioni ci può essere, e non è un fatto trascurabile, che chi ha animato l’autorganizzazione studentesca ai licei all’inizio del decennio, ora si ritrovi iscritto all’università in una situazione politica ancora più compromessa e con delle minacce sempre più concrete. Si può infatti notare una certa continuità delle forme e dei modi della protesta dei liceali di ieri con gli universitari di oggi. In fin dei conti sono sempre loro: i figli della classe media, la pancia benestante del paese che per prima avverte gli effetti della crisi economica.
La crisi irrompe nella scuola e nell’università verso la fine dell’estate quando il 21 agosto viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale la legge 133 inclusa nella finanziaria di Tremonti che converte un decreto “recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”. Tra le righe si avverte forte l’urgenza di fare cassa con la spesa pubblica e infatti all’articolo 66 comma 13 si legge: “il fondo per il finanziamento ordinario delle università è ridotto di 63,5 milioni di euro per l’anno 2009, di 190 milioni di euro per l’anno 2010, di 316 milioni di euro per l’anno 2011, di 417 milioni di euro per l’anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013”. Siamo ancora in vacanza, i mercati sono stabili e la crisi delle banche non è ancora immaginabile: con questa legge il governo Berlusconi vuole tagliare quasi un miliardo e mezzo di euro per ricoprire il buco creato dalla sospensione dell’Ici sulla prima casa. Inoltre il centrodestra vuole compiere la privatizzazione dell’università italiana iniziata del ministro Moratti soltanto tre anni fa. L’articolo 16 della stessa legge, infatti, prevede la “facoltà di trasformazione in fondazioni delle università”, in fondazioni di diritto privato ovviamente. Non è finita qua: il primo settembre viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto-legge 137 sulla scuola pubblica che prevede tagli drastici sia sugli insegnanti (maestro unico nella scuola primaria) che sul tempo pieno. La scuola elementare, formata da maestri, genitori e studenti, è la prima a mobilitarsi e a protestare già alla riapertura dell’anno scolastico a metà settembre. Poi, verso la fine di settembre stesso, crollano i mercati mondiali, la finanza del capitalismo globale va in rosso, la crisi incomincia a riguardare e a preoccupare tutti.
È allora che in tutte le città universitarie nascono assemblee spontanee, tanto che all’inizio di ottobre ci sono le prime assemblee pubbliche nelle facoltà italiane. A Napoli, Firenze, Torino, Roma, Palermo, Pisa e Milano vengono occupati i rettorati e le prime facoltà per protesta. Il ministro Gelmini, in evidente stato confusionale, dice di non capire la protesta e cancella tutte le sue visite ufficiali alle inaugurazioni degli anni accademici. Quando le chiedono di commentare il 15 ottobre un sit-in sotto il suo Ministero, risponde che quando ci sono delle proteste lei si rifugia dal parrucchiere. Il 16 ottobre a Roma un corteo non autorizzato degli universitari blocca per alcuni minuti la stazione Termini e raggiunge il Ministero dell’economia. Il giorno dopo a Milano un corteo di cinquantamila studenti blocca la città, mentre il 21 di ottobre è a Firenze che si registra una manifestazione di quarantamila universitari. Lo slogan più riuscito di questi cortei è “noi la crisi non la paghiamo”. Proprio il 21 viene caricato dalla celere un piccolo corteo a Milano e sono dello stesso giorno le parole del presidente del consiglio Berlusconi, poi smentite il giorno dopo, che accusano gli studenti di essere dei facinorosi e minacciano sgomberi e repressioni negli atenei occupati. Dopo almeno tre settimane di agitazione, in cui il governo forte del consenso e del controllo dei mezzi di informazione ha pressoché ignorato la protesta, Berlusconi interviene in merito da una parte mostrando i muscoli e volendo provocare gli studenti con un linguaggio violento, ma dall’altra dimostrando la sua impreparazione e ammettendo implicitamente la sua debolezza. La protesta, infatti, dopo le sue minacce, dilaga senza paura e l’indignazione aumenta: il 23 ottobre a Roma un corteo di quindicimila studenti assedia il Senato dove devono essere approvati i decreti e il giorno dopo gli studenti, sempre a Roma, provano a bloccare pacificamente la Festa del Cinema all’Auditorium rimediando due cariche a freddo della polizia.
Dappertutto e in modo generalizzato e spontaneo nascono proteste e mobilitazioni dal basso. Nei dipartimenti gli studenti instaurano un nuovo dialogo con i professori, studiano le leggi e discutono dei problemi dell’università. Le facoltà umanistiche hanno problemi più che altro didattici dopo la famigerata riforma del 3+2 (tre anni per la laurea e due per la specialistica) e l’introduzione del sistema dei crediti formativi (cfu) che hanno dato vita o a esami spropositati o a esami burletta. Le facoltà scientifiche hanno problemi di spazio, di accessibilità ai laboratori e al mondo del lavoro e della ricerca. A tutti gli studenti appare chiaro che il progetto di Tremonti-Gelmini si tradurrà in un vertiginoso aumento delle tasse universitarie e in una società in cui corsi di laurea e università d’eccellenza saranno sempre più accessibili solo per i ricchi privilegiati in grado di pagare le rette. Ma la cosa interessante è che la protesta non si limita solo al problema economico e quindi solo di categoria: in questa convergono anche il tema del lavoro e della precarietà, delle spese militari e dell’impiego dispendioso dei soldati nelle nostre città e all’estero. In gioco c’è il problema di un futuro sempre più incerto, di una eredità pesante e precaria che i giovani di oggi saranno costretti a sobbarcarsi, privi di illusioni e utopie, molto attenti alla realtà. Proprio questa prospettiva non ideologica, molto concreta, sembra essere vincente sul piano della comunicazione. Nonostante i disagi, la popolazione capisce la protesta e la trova legittima, e, per quanto possono essere indicativi i sondaggi, sul tema della scuola il governo si trova in minoranza e perde consensi.
Il 28 e il 29 ottobre, i giorni dell’approvazione dei decreti, gli studenti bloccano Roma, Torino, Napoli e Milano con cortei e sit-in generalizzati. A Piazza Navona a Roma, sotto Palazzo Madama, si registrano i casi più gravi di infiltrazione e provocazione: la polizia tollera l’ingresso nella piazza di un camion carico di spranghe di un gruppo di neofascisti che, durante la manifestazione degli studenti medi, intimidisce, picchia indiscriminatamente e finisce per scontrarsi con gli universitari. La risposta del movimento a uno schema preciso che vuole gettare benzina sul fuoco è ancora una volta pacifica con una sana e naturale ammissione di antifascismo. Il 30 ottobre il partecipatissimo sciopero nazionale della scuola dei sindacati confederali (quasi un milione di persone) viene attraversato dagli studenti che assediano il Ministero della Pubblica Istruzione. E a novembre la rivolta non tende a fermarsi con mobilitazioni in tutte le città il 7 e una manifestazione nazionale a Roma il 14 con un’assemblea il 15 e il 16 all’Università della Sapienza occupata.
Anche se le proteste perderanno, se cioè il governo Berlusconi realizzerà i tagli e muterà le basi della nostra costituzione e società in merito alla scuola e all’istruzione, il movimento degli studenti ha già raggiunto un forte grado di coscienza e un valore esperienziale innegabile. Non va dimenticato che questa generazione di studenti appartiene alla classe media, che per la maggior parte è cresciuta negli anni dell’ascesa del berlusconismo e che il suo orizzonte di attesa del presente è il consumo, quello del futuro è la precarietà. Gli studenti per la prima volta si ribellano a queste prospettive anche se non hanno mai conosciuto alternative, anche se sarebbe più semplice la sconfortante accettazione e il cinismo. Ancora più incredibile appare la rivolta di quegli studenti medi che sono nati agli inizi degli anni novanta. Per la prima volta esercitano la politica reale non sentendosi rappresentati da nessuno, nell’epoca della scomparsa della sinistra e dell’assenza di un’opposizione sostanziale in parlamento (non vale la pena ricordare il ritardo e l’impreparazione dei partiti che si dicono di opposizione di fronte alla protesta studentesca). Più in generale dopo l’epocale vittoria elettorale di Berlusconi, dopo la scomparsa della sinistra, la nuova onda della rivolta studentesca appare come unica opposizione viva alla crisi.

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