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REFERENDUM ELETTORALE, CHE FARE?

Riportiamo l’opinione del professor Ortona,  docente di Scienze Politiche, in merito al referendum che si terrà domenica e lunedì. E’ un po’ lungo ma vale la pena di leggerlo per capire i quesiti, e forse per capire anche un po’ di democrazia.

A proposito del prossimo referendum sulla legge elettorale
Guido Ortona, professore ordinario di Scelte Collettive, facoltà di Scienze Politiche, Università del Piemonte Orientale, già coordinatore nazionale dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale Confronto quantitativo di sistemi elettorali (2003-2005) e Uso di metodologie simulative per la scelta del sistema elettorale (2005-2007). Aprile 2009. Commenti e suggerimenti sono benvenuti. guido.ortona@sp.unipmn.it.
Si prega di fare circolare questo documento il più largamente possibile.

Il prossimo referendum elettorale non sta suscitando l’allarme che dovrebbe. C’è chi è convinto che non si raggiunga il quorum, e chi non si rende conto della gravità della situazione. Che il quorum non venga raggiunto è probabile ma tutt’altro che garantito, data l’adesione al si del partito democratico e dato l’interesse oggettivo di Berlusconi alla vittoria dei si; entrambi i fattori potranno produrre molta propaganda diretta e occulta. Alla gravità della situazione che conseguirebbe da una vittoria dei si è dedicato tutto il resto di questo testo.

1. Su cosa si vota. Come non è abbastanza noto, si voterà per tre referendum. Uno è un referendum civetta, finalizzato alraggiungimento del quorum per gli altri due; in esso si chiede di proibire le candidature di una stessa persona in più circoscrizioni. Con gli altri due, uno per la Camera e uno per il Senato, si chiede che l’attuale cospicuo premio di maggioranza, sufficiente a far raggiungere il 55% dei seggi a chi ha la maggioranza relativa, vada non più alla coalizione, ma alla singola lista che ottenga la maggioranza relativa.
Apparentemente cambia poco rispetto alla situazione attuale. Ma in realtà si tratterebbe di una sostanziosa riduzione della democrazia, come verrà argomentato più sotto.

2.Referendum e sistema maggioritario. A prima vista, ciò che il referendum vorrebbe ottenere è la struttura parlamentare tipica di un sistema maggioritario: meno partiti che nel proporzionale (tendenzialmente due), e una maggioranza con molti seggi e formata da una coalizione di pochissimi partiti, possibilmente anzi da uno solo. Ciò che i promotori del referendum dicono infatti di volere è che i partiti attuali si coalizzino in due (o eventualmente più, ma meglio due) partiti “veri”, caratterizzati al loro interno da monolitismo decisionale. Questo ridurrebbe il peso dei do ut des interni alla compagine governativa, e quindi produrrebbe maggiore governabilità. Cito dal sito del comitato promotore: “il sistema elettorale risultante dal referendum spingerebbe gli attuali soggetti politici a perseguire, sin dalla fase preelettorale, la costruzione di un unico raggruppamento, rendendo impraticabili soluzioni equivoche ed incentivando una significativa ristrutturazione del sistema partitico. Si aprirebbe, per l’Italia, una prospettiva tendenzialmente bipartitica, con conseguente eliminazione della frammentazione dentro le coalizioni”. Vedremo che ciò è falso; ma anche se fosse vero sarebbe tutt’altro che auspicabile.

3. Maggioritario, referendum e governabilità. E’ possibile che ci siano degli elettori (e lettori, scusate il gioco di parole) che credono in buona fede che ciò che i promotori del referendum dicono di volere sia auspicabile. Si sbagliano: la ricerca politologica, sia empirica che teorica, smentisce che il risultato della riduzione del numero dei partiti corrisponda a una maggiore governabilità.
Se quindi fosse vero che la vittoria dei si equivale all’introduzione di un sistema maggioritario, ciò sarebbe più che sufficiente per essere fermamente contrari. In realtà ci sarebbe una differenza significativa, e in peggio: e cioè che il maggioritario obbliga almeno a chiedere il voto sui singoli candidati, e quindi obbliga i partiti a presentare dei candidati almeno un po’ credibili. Col sistema che si verrebbe a creare i nomi dei candidati sarebbero irrilevanti, e ciò apre alla strada al massimo di rappresentanza delle lobbies economicamente potenti e al minimo di rappresentanza dei cittadini.

4. Un “errore” fondamentale. Anche ammesso -erroneamente, come abbiamo visto- che (a) il referendum porti veramente a una struttura maggioritaria e (b) che tale logica sia auspicabile, rimane comunque un errore logico fondamentale nell’argomentazione dei promotori del referendum; talmente evidente da far ritenere praticamente impossibile che sia stato commesso in buona fede.
L’errore è il seguente: non c’è alcuna garanzia che la riduzione nominalistica del numero dei partiti corrisponda a una riduzione effettiva del numero delle fazioni e quindi dei decisori. Al contrario, la possibilità di condurre le trattative fondamentali prima delle elezioni, cioè al momento di scegliere le candidature, e del tutto al riparo dall’opinione pubblica, darebbe uno spazio enorme ai ricatti, ai do ut des delle diverse lobbies e soprattutto alla pura e semplice corruzione.
In effetti, i vari gruppi di pressione avrebbero tutto l’interesse a mantenere, e anzi ad aumentare, la propria autonomia, onde massimizzare il loro potere di ricatto, sopratutto quello occulto. Anziché avere molti partiti avremo insomma molte correnti; l’unica differenza è che oggi un elettore può scegliere che partito votare all’interno della coalizione, mentre se vincono i si questo potere gli sarà sottratto. In sostanza, assisteremo (o meglio, non assisteremo, perché avverrà al riparo della vista degli elettori) a una complicatissima rete di ricatti, manovre, accordi sottobanco, ecc., al termine della quale agli elettori verrà presentato un pacchetto “prendere o lasciare”. La trattativa vera avverrà comunque prima delle elezioni; in aperto contrasto con lo spirito della democrazia, per cui gli elettori votano i loro rappresentanti e poi questi rappresentanti trattano per formare una maggioranza.
Questo nel caso che i partiti si coalizzino; se non lo fanno lo scenario è ancora peggiore.

5. Altri scenari. Sono infatti possibili tre scenari. Il più probabile, come abbiamo visto, è che i diversi partiti si uniscano in coalizioni. Questo scenario può facilmente evolvere in un secondo, molto più preoccupante. Le potenti lobbies rappresentate dai e al comando nei grandi partiti-coalizioni avranno tutto l’interesse a mettersi d’accordo per spartirsi il potere, invece di rischiare a ogni elezione di perderlo. La grande coalizione diventerà facilmente una coalizione di centro, che si identificherà sempre più con lo stato, anche perché sarà facilmente in grado di cooptare le frange necessarie a garantire la maggioranza. C’è quindi un rischio reale che il sistema evolva verso un sistema a partito unico.
Infine, è possibile che i partiti non si coalizzino, come auspicato da Veltroni. In tal caso un partito col 30 % dei voti o anche meno governerà con la maggioranza assoluta, grazie al voto di una maggioranza composta in buona parte da parlamentari che nessuno ha eletto; una situazione che si presta a ogni sorta di degenerazione, e sulla cui validità costituzionale è lecito nutrire seri dubbi. Sull’aspetto della costituzionalità torneremo più sotto.

6. Altri problemi. L’aspetto più propriamente liberticida di una possibile vittoria dei si è quindi la sottrazione agli elettori di gran parte del potere di scelta dei loro rappresentanti.
Ma ci sono altri elementi pericolosi. Il primo è l‘ulteriore distacco che si creerebbe fra classe politica (o “casta”; il termine è sempre meno improprio) e popolo. Si tratta di qualcosa di molto pericoloso per la democrazia. Come risulta dai sondaggi, fra tutti i paesi dell’Europa Occidentale l’Italia è già adesso quello in cui la democrazia gode del minore appoggio popolare. E’ facile prevedere che quando le alleanze fra i partiti si faranno interamente all’oscuro oppure governerà da solo un partito col 30% dei voti questo prestigio scenderà ulteriormente. L’abolizione del voto di preferenza (che, è bene ricordare, non verrebbe reintrodotto se vincessero i “si”) ha tolto agli elettori la possibilità di scegliere il loro candidato preferito, e ciò, a giudizio unanime, ha contribuito potentemente a far sì che i candidati vengano “calati dall’alto”, e che vengano sentiti come estranei. Se vincono i “si”, agli elettori verrà tolto anche il diritto di scegliere il partito preferito. E’ ovvio che ciò farà ulteriormente aumentare il distacco fra elettori e candidati.
Il secondo è la coerenza fra la proposta del referendum e la strategia berlusconiana. Berlusconi afferma che chi ha la maggioranza deve governare da solo, senza lacci e lacciuoli; i sostenitori del referendum dicono la stessa cosa: a chi ha la maggioranza relativa, anche molto limitata, bisogna dare la maggioranza assoluta, in modo che possa governare da solo. Il sostegno del “si” porta insomma molta acqua al mulino di Berlusconi; l’incoerenza fra l’appoggio al “si” e la critica al personalismo di Berlusconi è palese. Ciò tra l’altro rende la posizione del Partito Democratico nella migliore delle ipotesi incomprensibile.
Infine, a seguito della scomparsa del premio di maggioranza alle coalizioni, le soglie di sbarramento risulterebbero alzate: 4% alla camera e addirittura 8% al senato. La soglia al senato è ovviamente troppo alta, sia rispetto alla necessità di mantenere un’effettiva rappresentatività sia rispetto agli standard mondiali. Inoltre, questa differenza di soglie aggraverebbe il principale difetto della legge attuale, e cioè la possibilità di una maggioranza diversa fra le due camere.

7. Un po’ di economia. Ma allora, perché? Perché c’è chi è favorevole al si? Naturalmente c’è chi lo è perché gli conviene: a molte lobbies politiche, economiche e mafiose conviene che ci sia meno democrazia. E ciò è ovvio: democrazia vuol dire in primo luogo “una testa un voto”, e quindi in linea di principio, se funziona bene, è in contrasto con gli interessi di chi preferirebbe “un euro un voto”. Ma credo che ci sia anche chi crede in buona fede che sia meglio ridurre (e di molto, come abbiamo visto) la democrazia per motivi non egoistici. Questi motivi sono economici; l’idea è che un sistema più decisionista contribuirebbe a togliere molti degli impedimenti che ostacolano la crescita economica del nostro paese.
Questo argomento ha apparentemente qualche fondamento, ma in realtà è sbagliato, per due motivi fondamentali. Il primo è che la democrazia è un valore in sé, anche economico. Come diceva a suo tempo Sylos Labini, e senza assolutamente volere denigrare i ragionieri, la differenza fra l’economia e la ragioneria è che la ragioneria considera solo i costi e i guadagni monetari, mentre l’economia considera anche quelli non monetizzabili. Ora, la pesante riduzione della democrazia che conseguirebbe alla vittoria dei “si” avrebbe ovviamente effetti deleteri sulla qualità della vita di tutti, in termini di emarginazione, di immiserimento, di corruzione diffusa, di perdita di cultura, di asservimento ai potenti. Questi sono tutti costi, per evitare i quali vale la pena pagare qualche decimo di punto di crescita del PIL.
Ammesso che lo si paghi; e vengo al secondo errore di chi pensa che meno democrazia equivalga a più ricchezza. E’ vero che esistono esempi in cui la dittatura (al netto dei costi di cui sopra) ha portato a una maggiore crescita del PIL, come la Germania di Hitler o la Francia di De Gaulle, ma ce ne sono altri, come l’Argentina e la Grecia, in cui è avvenuto il contrario. Non esiste una letteratura conclusiva su quando l’autoritarismo conviene e quando no (parliamo sempre solo del punto di vista ragionieristico); o forse esiste ma io non la conosco. E’ certo però che molto dipende dalla capacità con cui i vari potentati economici e le varie mafie riuscirebbero a impossessarsi di quote di potere per usarle per i propri interessi, e da quanto questi interessi sono in contrasto con gli interessi dell’economia nazionale.

8. Un po’ di geografia e un po’ di storia.

E’ utile ricordare che la maggioranza dei paesi democratici adotta un sistema proporzionale; che in Europa solo tre paesi adottano un sistema maggioritario, e cioè il Regno Unito, la Bielorussia e la Francia (quest’ultima però a doppio turno); e che la maggioranza degli studiosi di scienza della politica ritiene che il sistema proporzionale sia preferibile a quello maggioritario. (Chi fosse eventualmente interessato ai dati a suffragio di queste affermazioni li troverà in un mio articolo apparso nel settembre del 2007 sulla rivista elettronica Costituzionalismo, scaricabile dal sito http://www.costituzionalismo.it/articolo.asp?id=251). Soprattutto, è interessante notare che il premio di maggioranza è pochissimo usato; oltre che in Italia esiste solo in Grecia e a Malta. A Malta tuttavia il premio viene concesso solo quando un partito ha già la maggioranza assoluta dei voti, ma non dei seggi; e in Grecia per avere diritto al premio di maggioranza un partito o una coalizione di partiti deve avere almeno il 41.5% dei voti. La possibilità che si avrebbe in Italia di passare dal 30% dei voti o meno al 55% dei seggi non ha riscontro nella geografia elettorale.
Ha però riscontro nella storia. La legge elettorale che risulterebbe dalla vittoria dei “si” ricorda abbastanza da vicino la legge Acerbo del 1923, pensata per garantire una larga maggioranza a Mussolini; essa infatti prevedeva che per avere il premio di maggioranza (che avrebbe portato ai due terzi dei seggi) sarebbe stato sufficiente il 25% dei voti.

9. Un po’ di diritto costituzionale.

Il testo che risulterebbe dal referendum suscita fondati dubbi di costituzionalità; vedremo che la sua ammissione da parte della Corte Costituzionale non li inficia. L’articolo 56 per la Camera e gli articoli 57 e 58 per il Senato stabiliscono infatti che i deputati e i senatori sono eletti a suffragio universale diretto. Non si parla di parlamentari non eletti (ovviamente con l’eccezione dei senatori a vita) e quindi non sembra vi sia spazio per un premio di maggioranza. Il problema esiste anche con la legge attuale, ma se vincessero i “si” aumenterebbe il numero di parlamentari non eletti. Custodire la costituzione è un dovere anche dei politici, e quindi i politici che favoriscono il “si” tradiscono probabilmente il loro mandato.
Ma allora perché la corte costituzionale ha dichiarato il referendum ammissibile? Leggiamo nella sentenza (art.6): “Questa corte può spingersi soltanto sino a valutare un dato di assoluta oggettività, quale la permanenza di una legislazione elettorale applicabile, a garanzia della stessa sovranità popolare, che esige il rinnovo periodico degli organi rappresentativi. Ogni ulteriore considerazione deve seguire le vie normali di accesso al giudizio di costituzionalità delle leggi” (sottolineatura aggiunta). Questo passo è la conclusione di un lungo ragionamento che in sostanza significa: la Corte può solo verificare che la eventuale abrogazione non crei dei “buchi” nella legislazione. Non può invece valutare nel merito la costituzionalità della struttura risultante; perché possa fare ciò la legge risultante dovrà essere impugnata nelle forme dovute.

10. E’ giusto non andare a votare. Bisogna quindi che i “si” non vincano. L’elettore contrario al “si” può scegliere se votare no o non andare a votare. Come è noto, se i contrari possono comportarsi in modo unanime conviene non andare a votare. Curiosamente, tuttavia, è diffusa l’idea che non andare a votare sia immorale.
a) Essendo in gioco la democrazia -perché questa è la posta in palio- non bisogna andare tanto per il sottile.
b) In uno stato di diritto esistono il lecito e l’illecito, non il “vale” e “non vale”. Se la legge consente di trarre vantaggio dal non andare a votare, non c’è motivo di non farlo.
c) Se i contrari non vanno a votare, ciò equivale a dire che il “si” per vincere deve avere la maggioranza non dei votanti ma degli aventi diritto. Poiché il referendum è una garanzia per il caso che il Parlamento deliberi contro la volontà della maggioranza degli elettori, ciò non sembra sbagliato.
d) Non andare a votare non costituisce necessariamente una scelta tattica. Io per esempio sono molto contrario a che una norma così importante per la democrazia come una riedizione della legge Acerbo venga approvata da una platea di elettori disinformati sulla base di un testo elaborato a colpi di bianchetto. In altri termini, il rifiuto di votare può benissimo essere una scelta politica, di pari dignità che l’essere per il si o per il no. Stando così le cose, non è vero che la possibilità di non votare dia un indebito vantaggio al “no”; è invece vero che l’esistenza di due gruppi di contrari al “si” fa sì che se questi gruppi non si coordinano siano i “si” ad avere un vantaggio indebito.

11. Conclusioni. la vittoria del “si” al referendum creerebbe un serio pericolo per la democrazia. Il raggiungimento del quorum è improbabile, ma possibile; molto dipenderà da quanto i partiti principali e i mezzi di informazione che a loro fanno riferimento si impegneranno. La strategia migliore per chi sia contrario al “si” è non andare a votare; non c’è alcun motivo per non farlo.

1 Comment on “REFERENDUM ELETTORALE, CHE FARE?”

  1. #1 elisa
    on Giu 21st, 2009 at 15:50

    il referendum però è l’unico strumento che ha il popolo e forse è un peccato non esercitarlo per dire la propria, o meglio, per provare a dire la propria, dato che qualunque sia il risultato il Parlamento non ha l’obbligo di tramutare il legge la decisione del popolo, perchè non hanno il mandato imperativo.

    Capisco la ratio del non mandato imperativo alle elezioni ma applicato al referendum no. Che senso ha? Il popolo quando  conta? Quando lo si consulta? Quando ci si attiene alle sue volontà? Esiste ancora l’interesse collettivo? O esiste solo quello particolare dei nostri rappresentanti?

     

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