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MAFIA, LA BIMBA CHE NON SA PERDONARE

Era in braccio al padre quando fu
ucciso. Ora ha 34 anni: non me la
sento di tornare a commemorarlo

LAURA ANELLO MONREALE (PALERMO)
Mamma, è stata colpa mia. Non ho avvertito in tempo papà, non ce l’ho fatta a dirgli che doveva scappare». È colpa mia se adesso è morto». Era notte quando Barbara Basile, quattro anni, riuscì a tirare fuori dal cuore il magone che la opprimeva. A confessarsi alla madre, a liberarsi dai fantasmi che la accompagnavano dal 4 maggio 1980, quando venne quasi schiacciata dal corpo del padre Emanuele, comandante della stazione dei carabinieri di Monreale, crivellato dai colpi di tre killer di Cosa nostra che gli volevano far pagare le intuizioni sui Corleonesi in ascesa, le indagini sull’omicidio di Boris Giuliano, i faldoni consegnati al giudice Paolo Borsellino.

Era in braccio a quell’omone in divisa quando gli spararono alle spalle, con la testolina reclinata, gli occhi che si chiudevano dal sonno. Protetta dalle sue braccia, in un momento finì a terra in mezzo al sangue. Adesso ha 34 anni, tre in più di quanti riuscì a viverne lui. Abita a Milano, la città d’adozione della madre, è impiegata in un’azienda privata, sta per sposarsi. Ma ieri, nel trentesimo anniversario della morte, non ha accettato l’invito a tornare in Sicilia. «Non me la sento, lì non ci voglio andare», ha detto ai familiari. Né lei né la madre Silvana, che la sera del delitto cercò invano di parare il marito dal colpo di grazia e raccolse la figlia tramortita. Donna-coraggio, che sfidò gli occhi dei killer, gridò «assassini, delinquenti», li accusò con una testimonianza dettagliata che non bastò, però, a evitare un’assoluzione in primo grado davanti alla quale – raccontò – «mi sarebbe venuta voglia di armarmi e di farmi giustizia da sola».

Seconda beffa in appello, quando Armando Bonanno (poi vittima di lupara bianca), Vincenzo Puccio (successivamente ucciso in carcere) e Giuseppe Madonia fecero perdere le tracce prima di ascoltare la sentenza di ergastolo, confermata poi in Cassazione. Si salvò per un pelo anche lei, protetta da un’agendina con la copertina di argento massiccio, tre centimetri per quattro, in cui si conficcò il proiettile. Gliel’aveva regalata il marito. No, madre e figlia non ce l’hanno fatta a tornare qui, lungo questa strada in cui camminavano alle due del mattino, in mezzo alla folla accorsa per la festa del Santissimo Crocifisso. Per mesi e mesi, dopo il delitto, la bambina graffiava, urlava, ripeteva: «Assassini, delinquenti, vi uccido tutti, vi sparo». Ieri, a ritirare la laurea honoris causa conferita dall’Università di Palermo alla memoria di Basile, c’erano i tre fratelli di lui: Vincenzo, Luigi e Cosimo. Testimoni di un dolore che brucia ancora, che ancora bagna gli occhi, nonostante il tempo passato.

A raccontare quegli anni terribili e la pace conquistata a fatica. «Barbara ne è venuta fuori. Ma è stata dura, durissima», dice lo zio Luigi, 59 anni, che lavora in banca a Taranto, la città d’origine della famiglia, la stessa in cui era nato Emanuele. «La bambina non parlò per tre giorni – ricorda – non aprì bocca, aveva la polvere da sparo sulla manina, i killer la mancarono per un soffio. Poi, dopo un po’, una notte disse che era stata colpa sua, che aveva visto quegli uomini e non aveva avvertito in tempo il padre».

Furono le carezze della madre a placarla, la rassicurazione «che le pallottole corrono più veloci delle gambe e che quindi, amore mio, anche se avessi gridato non sarebbe servito a niente».
Cerimonia fuori dalla retorica, quella di ieri, organizzata dall’Arma dei carabinieri e dall’Ateneo. Prima una messa, poi la collocazione di una nuova lapide nel luogo del delitto, sul corso principale, tra il via vai dei turisti diretti ad ammirare i mosaici del Duomo. Infine la consegna della pergamena di laurea in Giurisprudenza dalle mani del rettore dell’Università di Palermo, Roberto Lagalla, che ha rispolverato un decreto del 1949 per conferire il titolo alla memoria. Studente con tutti 30, Emanuele Basile. «E studiare diritto a Palermo sul finire degli Anni 70 – dice il preside della facoltà, Giuseppe Verde – non deve essere stato facile, c’è da chiedersi se il clima culturale non fosse in contrasto con i problemi che il capitano esercitava nell’esercizio delle sue funzioni».

A ritirare il diploma il più anziano dei fratelli, Vincenzo, insegnante in pensione, oggi impegnato con l’associazione «Libera memoria» nella promozione della cultura della legalità nelle scuole. Bacia la pergamena e si commuove, riceve anche i documenti che erano custoditi nella segreteria dell’Ateneo: un tesserino universitario ingiallito, la domanda di iscrizione scritta da Emanuele, il diploma di studi dell’Accademia militare di Modena. Sono applausi, lacrime e ricordi. Un salto nel tempo. A partire da quella telefonata arrivata nel cuore della notte a Taranto, la bugia pietosa detta alla madre, che oggi ha 85 anni. «Le dissero che era stato ferito, conobbe la verità soltanto quando arrivò qui, e vide il corpo del figlio», racconta ancora Luigi.

La bambina, Barbara, non seppe che il papà era morto neanche ai funerali, quando il feretro avanzava sul carro funebre. «Ricordo che continuava a chiedermi: mamma, ma papà dov’è? È chiuso lì dentro in mezzo ai fiori? E io a dirle: no, papà non è lì, ha piccole ferite, lo stanno curando», raccontò la vedova. Passate poche settimane, arrivò a Monreale il nuovo capitano dei carabinieri, Mario D’Aleo. Tre anni dopo venne ucciso anche lui. Aveva 29 anni e stava per sposarsi

Articolo tratto da La Stampa

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