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DA GALLI A RONCHI, LA GESTIONE FOR PROFIT

dal Manifesto del Primo Maggio 2010, pagina 8 (SPECIALE ACQUA)

Da Galli a Ronchi, la gestione for profit

di Ugo Mattei

Oggi in tutte le piazze del primo maggio si potranno firmare i referendum per l’acqua pubblica. La speranza è di bissare il successo dello scorso week-end: 100 mila firme in 48 ore. Quattro illustri teorici dei beni comuni ci spiegano i motivi per cui aderire alla campagna

Nelle scorse settimane si è sviluppata una polemica fra quanti tramite il referendum intendono difendere l’acqua come bene comune e chi invece ritiene sufficiente la sua attuale collocazione come bene pubblico, facente parte del cosiddetto demanio idrico. Infatti l’attuale normativa sullo stato giuridico dell’acqua contenuta nel Codice Civile e nella legge Galli del 1994 prevede che l’acqua sia un bene pubblico di natura demaniale. Ai sensi di quest’ultima, «tutte le acque superficiali e sotterranee, ancorché non estratte dal sottosuolo, sono pubbliche e costituiscono una risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà». La stessa legge inoltre stabilisce che «qualsiasi uso delle acque è effettuato salvaguardando le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale. Gli usi delle acque sono indirizzati al risparmio e al rinnovo delle risorse per non pregiudicare il patrimonio idrico».

Tale enfasi testuale è mantenuta dal decreto Ronchi che prevede (art. 15): «Piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche». Secondo questa posizione, ripetuta da Ronchi anche al manifesto il 28 aprile, il decreto, approvato senza discussione parlamentare lo scorso novembre, non riguarda il bene acqua ma solo la gestione del servizio idrico. Che vogliono i referendari? L’acqua è e resta pubblica, il governo rende obbligatoria soltanto la gestione privata del servizio idrico, sostiene il ministro che ci accusa di menzogna e mistificazione mediatica. Di fronte ad un tale scenario, il giurista incontra diversi interessanti spunti di riflessione. Innanzitutto, la legge Galli sopra citata costituisce un esempio quasi di scuola di quel conflitto fra declamazioni e regole operazionali che i giuristi più avvertiti hanno da tempo imparato a smascherare soprattutto grazie all’ insegnamento del maestro torinese Rodolfo Sacco. Infatti è proprio la stessa legge Galli, in contraddizione con la retorica solidaristica ed ecologista dei suoi articoli di apertura, che inaugura nel nostro paese (in pieno periodo di privatizzazioni per «entrare in Europa»), tramite i suoi successivi articoli (oggetto a loro volta del prossimo referendum) la gestione privata for profit dell’acqua. Così facendo essa ha reso possibile, per la prima volta in Italia, assegnare in gestione ai privati un monopolio naturale, quel servizio idrico tramite il quale l’acqua arriva ai nostri rubinetti. Il giurista osserverà ancora (e lo ha fatto Rodotà proprio martedì 27 sulla prima del manifesto ) come a partire da un famoso libro di Berle e Means, la proprietà formale conta assai poco, mentre sono i manager, ossia i gestori, ad avere il pieno potere. Poco importa che l’acqua resti parte del demanio pubblico quando sarà la logica del profitto a fissarne i prezzi e a decidere sul se e sul come degli investimenti necessari per la sua gestione. Se deve farsi spazio per una certa percentuale di profitto dalla gestione del monopolio sulla rete idrica (addirittura garantito al 7% da un’altra disposizione oggetto di referendum) è logicamente impossibile che questi soldi non vengano reperiti o risparmiando sugli investimenti o aumentando le tariffe. E la storia della gestione privata dell’acqua, da Cochabamba (dove da poco si è festeggiato, con un meeting internazionale, il decennale della storica vittoria contro la multinazionale Bechtel che costò la presidenza a Sanchez de Lozada) a Parigi (dove a partire dal gennaio 2010 si è ripubblicizzato il servizio idrico) passando da Aprilia (dove la ripubblicizzazione è stata decisa proprio la scorsa settimana, anche se Acqualatina non vuole riconsegnare le chiavi dell’acquedotto al comune), realtà nelle quali, dopo molte lotte, gli utenti vessati sono riusciti a far invertire la rotta della privatizzazione, dà una conferma storica alla logica di cui sopra. Del resto anche le sorgenti da cui sgorga l’acqua minerale sono demaniali e la loro acqua resta formalmente pubblica. Tuttavia esse vengono date in concessione a prezzi irrisori a società private, spesso multinazionali, che con enormi profitti (testimoniati fra l’altro dalla pubblicità arrembante) imbottigliano e distribuiscono l’acqua minerale privatizzando di fatto il prodotto della sorgente e scaricando sulla collettività i costi del riciclaggio della plastica e quelli dell’inquinamento dei camion che trasportano le bottiglie. Queste considerazioni di buon senso stanno spingendo la cultura giuridica internazionale verso l’elaborazione della categoria del «bene comune» diverso tanto dal bene oggetto di proprietà privata quanto da quello oggetto di proprietà pubblica. Secondo la sua più autorevole concettualizzazione, elaborata dalla Commissione Rodotà a seguito di un lungo lavoro condotto all’Accademia Nazionale dei Lincei, e ora oggetto di proposta di legge delega presentata in Senato, i beni comuni «esprimono utilità funzionali all’ esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future e ne deve essere garantita in ogni caso la fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge… essi sono collocati fuori commercio. Alla tutela giurisdizionale dei diritti connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni ha accesso chiunque». L’ampio coinvolgimento che sta derivando dalla campagna di raccolta delle firme iniziata a tambur battente nel weekend del 25 aprile potrebbe rendere finalmente oggetto di discussione pubblica questioni che dietro all’apparenza tecnica celano scelte politiche drammaticamente urgenti. Come vogliamo usare le nostre ricchezze comuni superando sia la logica del profitto privato che quella, altrettanto obsoleta, della demanialità (poco importa se statale o federale)?

    http://www.ilmanifesto.it

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