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LA STRAGE DI CAPACI

“Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia; perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere.” Giovanni Falcone

Dal sito di Articolo21

Falcone. Un uomo e la sua solitudine
di Pino Finocchiaro*

Falcone. Un uomo e la sua solitudine

“Prima ti isolano, poi ti uccidono”. Lo aveva detto tante volte il giudice Giovanni Falcone prima di essere ucciso a Capaci quel caldo pomeriggio, erano le 17.58, era il 23 maggio del 1992 con cinque quintali di tritolo ammucchiato in un cunicolo sotto il manto dell’autostrada tra l’aeroporto e Palermo. L’attentatuni, fatto con l’esplosivo che porterà via anche la moglie Francesca Morvillo, gli uomini della scorta, coinvolgendo decine di civili. I detriti dell’esplosione sparsi sulle case di villeggiatura seppelliranno emblematicamente le speranze che il movimento antimafia aveva riposto nelle maxi inchieste del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto.

Il giorno prima Giovanni Falcone era stato designato alla guida della Procura nazionale antimafia. Sarebbe stato il primo procuratore nazionale antimafia. Sul suo tavolo di direttore degli affari penali al ministero della Giustizia, un fascicolo, ben in evidenza, era pronto al trasloco. Il rapporto dei carabinieri del Ros che analizzava il nuovo equilibrio mafia, politica e imprenditoria. Lo stesso dossier scandagliato da Paolo Borsellino prima di rimanere ucciso a sua volta poche settimane dopo, il 12 luglio, nella strage di via D’Amelio dove appare chiara la traccia dei servizi deviati.
Giovanni Falcone aveva fatto un nome ben preciso tra i vertici dei sevizi, quello di Bruno Contrada che la Cassazione condannerà in via definitiva a dieci anni di carcere per conorso esterno in associazione mafiosa.

Quel pomeriggio, il procuratore nazionale in pectore, andando incontro alla morte era consapevole che alla borghesia mafiosa l’arma dell’isolamento e della calunnia non bastava più. Tanto da dire a Marcelle Padovani “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

L’esplosione provoca una voragine nell’autostrada. I soccorritori si muovono in clima irreale. Giovanni Falcone respira ancora, lo portano in elicottero al civico di Palermo e lì muore alle 19.05. Poche ore dopo toccherà alla moglie Francesca Morvillo. I vigili del fuoco strappano alle macerie piegate e arroventate i cadaveri irriconoscibili degli agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Di Cillo.

A Milano, il pm Ilda Boccassini urla ai colleghi riuniti in assemblea: “Voi avete fatto morire Giovanni con la vostra indifferenza e le vostre critiche”. E’ l’ennesima notte della Repubblica. Al chilometro cinque dell’A29 sembra divelta e sepolta persino la speranza. Poi mille giovani mani cominciano a collocare messaggi di sdegno e solidarietà sull’albero che fronteggia l’ingresso della casa di Giovanni Falcone, in via Notarbartolo a Palermo.

E’ la Sicilia vera, la Sicilia che non ha perso il gusto della bellezza e della verità, che scende in strada per dire no alla politica stragista di Cosa Nostra e dei suoi fiancheggiatori. Le indagini hanno portato in carcere gli esecutori materiali e i mandanti dell’ala militare di Cosa Nostra. Restano impuniti i loro ispiratori dai lindi colletti bianchi.

L’ex boss Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia condannato, tra l’altro, per aver premuto il tasto del telecomando che innescò la “bomba” di Capaci, pochi giorni fa ha dichiarato che tra le due stragi contro i magistrati palermitani, un uomo delle istituzioni si rivolse a Riina per avviare una trattativa con Cosa Nostra.

Il nome, secretato, è agli atti della procura di Caltanissetta che ha riaperto l’inchiesta sui mandanti politici delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Un’inchiesta che dovrà far luce sui momenti di solitudine di Giovanni Falcone e sul ruolo che ebbero la borghesia mafiosa e pezzi asserviti delle istituzioni.

A partire dall’attentato all’Addaura del 21 giugno del 1989 mentre Falcone indagava sui flussi di denaro sporco con la collega elvetica Carla Del Ponte.

Ma c’è una Sicilia bella e vera che non dimentica la solitudine di Giovanni Falcone. Una Sicilia che non si arrende al patto scellerato tra Cosa Nostra, Politica e Affari. La mafia ha isolato la sua ala stragista, ha bisogno di fare affari. Ha bisogno di silenzio. C’è un’altra Sicilia che non tace, scende in piazza, grida “addio pizzo”, inonda i balconi di lenzuoli bianchi con slogan contro la mafia o foto di Giovanni e Paolo che sorridono.

Una Sicilia che sembra voler dar corpo alle parole di Giovanni Falcone: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.»

* Redattore di Rai News 24

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